Nella terza uscita della rubrica si è più volte sottolineato come i percorsi di formazione non siano improntati alla creazione di una coscienza civile ed istituzionale, sebbene piccoli e incerti passi siano stati mossi nella giusta direzione. L’argomento di quest’ultimo approfondimento rappresenta, per questo motivo, il culmine di un cammino che ha presentato le gravi deficienze del sistema di istruzione italiano e le conseguenze che esso ha sulla società.
La politica, nella sua accezione più spiccatamente moderna, è da sempre il primo e più grande tabù del mondo dell’istruzione; quante volte nei nostri plessi è ricorsa la sentenziosa frase “a scuola non si deve fare politica”? Come se la parola stessa evocasse non si sa quale entità maligna, come se “parlare di politica” a scuola fosse il primo passo verso un indottrinamento partitico o peggio, nella visione popolarmente diffusa, il primo passo verso il mondo corrotto e sporco della compravendita delle cariche.
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Se negli articoli precedenti si è posta attenzione sugli enormi problemi e sulle mancanze che il sistema scolastico italiano purtroppo presenta, è adesso opportuno analizzare, per quanto il format lo permetta, anche le conseguenze socio-culturali che la situazione comporta ed ha comportato. Occorre dire che il mondo del nuovo millennio ha bruciato le tappe dell’evoluzione tecnica e tecnologica: in pochi anni la società occidentale è passata dall’invenzione del cellulare alla totale incapacità di farne a meno; si è verificata l’intensificazione dell’utilizzo di internet (che dai primi anni 2000 ha avuto una diffusione anche tra le personi comuni, cioè non deputate ad un utilizzo lavorativo) e la nascita dei social network che sono ormai parte integrante della vita di una fetta maggioritaria della popolazione. Questi sono soltanto degli esempi: l’evoluzione è stata esponenziale in ogni campo: medicina, industria, energia, ingegneria, informatica.
Affrontare il tema dell’educazione civica è sempre molto difficile: ogni volta che viene nominata le voci si levano numerose e discordanti, tutte accondiscendenti, nessuna risolutiva. La prima questione che preme qui affrontare è la drammatica necessità che una democrazia pluralista e avanzata ha di una formazione istituzionale, civile e politica dei suoi cittadini. In primo luogo, dal momento che ad ogni cittadino è riservato il diritto (che raramente è percepito come dovere purtroppo) del voto, è assolutamente imperativo che egli davanti all’urna elettorale abbia coscienza dei meccanismi che regolano lo stato. Troppe volte, anche tra i giovani più formati, vengono alla luce lacune su questi meccanismi: eloquente è stata, per chi vi scrive, l’esperienza delle elezioni europee del 2019, nelle quali pochissimi di noi neomaggiorenni avevano una precisa conoscenza di ciò per cui stavano votando. Non solo, anche una formazione in materia costituzionale e civile non può essere secondaria per una convivenza sociale pacifica e rispettosa, un altro punto del quale ogni giorno si sperimentano le mancanze nelle generazioni recentemente uscite dal percorso scolastico. Il problema esiste, ed è, come mostrato, di proporzioni enormi.
Se l’obiettivo è quello di tracciare un quadro esteso e profondo della situazione dell’istruzione pubblica non è possibile esimersi dal parlare di finanziamenti. Sebbene i problemi siano molti e le riforme siano state insufficienti a colmare i gap che ci dividono dai nostri punti di riferimento europei, si vedrà il caso della riforma del 2016 dal nome “buona scuola” ad esempio, l’elefante nella stanza è il finanziamento pubblico destinato all’istruzione. Nel 2016 il dato percentuale della spesa per l’istruzione rispetto a quella totale italiana recita impietosamente 6,9%, in netto calo rispetto agli anni precedenti: nel 2008 era del 9,4% e nel 2011 dell’8,6%. Allargando lo sguardo, si può notare come la Francia investa in istruzione l’8,4% della sua spesa pubblica nel 2016 e la Germania il 9,1%. Sebbene anche i due grandi paesi di riferimento presentino dati in decrescita, dovuti probabilmente alla politica di austerity con relativi tagli alla spesa pubblica conseguentemente alla crisi finanziaria del 2008, il dato rimane preoccupante e denota uno scarso interesse verso il settore dell’istruzione. In particolare, i dati relativi alla sola istruzione terziaria (università e istituti tecnici superiori) sono pessimi se rapportati a quelli tedeschi: in Italia la percentuale di spesa pubblica per l’istruzione terziaria è dell’1,5%, in Germania del 2,8%, quasi il doppio.
Senza timore di smentita si può affermare che l’Italia possieda uno dei patrimoni culturali fra i più importanti del pianeta; sotto questo profilo si è davanti ad un’eccellenza assoluta. Così come si è davanti ad un’eccellenza se si guarda alla preparazione che gli studenti italiani possiedono dopo il conseguimento della laurea. Non a caso essi sono largamente richiesti nei paesi dell’Unione Europea e il 52,6% degli emigrati sopra i 25 anni è in possesso di un titolo di studio medio-alto (dato del 2017). Se però si considera che la percentuale di laureati nella fascia d’età fra 25 e 64 anni consiste solamente nel 19,6% della popolazione (contro una media europea del 33,2%) il quadro assume tinte molto più fosche.
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