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IL MONDO DELL'ISTRUZIONE IN ITALIA

​PERCHÈ SIAMO SEMPRE ULTIMI?

SPESA PUBBLICA E RIFORME: UNA STRADA IN SALITA

15/12/2021

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Se l’obiettivo è quello di tracciare un quadro esteso e profondo della situazione dell’istruzione pubblica non è possibile esimersi dal parlare di finanziamenti. Sebbene i problemi siano molti e le riforme siano state insufficienti a colmare i gap che ci dividono dai nostri punti di riferimento europei, si vedrà il caso della riforma del 2016 dal nome “buona scuola” ad esempio, l’elefante nella stanza è il finanziamento pubblico destinato all’istruzione. Nel 2016 il dato percentuale della spesa per l’istruzione rispetto a quella totale italiana recita impietosamente 6,9%, in netto calo rispetto agli anni precedenti: nel 2008 era del 9,4% e nel 2011 dell’8,6%. Allargando lo sguardo, si può notare come la Francia investa in istruzione l’8,4% della sua spesa pubblica nel 2016 e la Germania il 9,1%. Sebbene anche i due grandi paesi di riferimento presentino dati in decrescita, dovuti probabilmente alla politica di austerity con relativi tagli alla spesa pubblica conseguentemente alla crisi finanziaria del 2008, il dato rimane preoccupante e denota uno scarso interesse verso il settore dell’istruzione. In particolare, i dati relativi alla sola istruzione terziaria (università e istituti tecnici superiori) sono pessimi se rapportati a quelli tedeschi: in Italia la percentuale di spesa pubblica per l’istruzione terziaria è dell’1,5%, in Germania del 2,8%, quasi il doppio. 
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​La premessa era necessaria per due motivi: chiarire come il divario con i paesi leader dell’Unione europea sia ampio e contestualizzare le difficoltà di una riforma scolastica dal momento che senza fondi è difficile mettere in sesto un settore che sta declinando da anni. Ma venendo al concreto, l’ultima grande riforma scolastica è avvenuta nel 2015 con il governo Renzi, nel quale Stefania Giannini era ministra dell’istruzione, ed è in vigore dal 2016. Essa è stata criticata aspramente sia dall’interno del mondo scolastico che dall’esterno: è una riforma abbastanza ampia e che interessa molti aspetti del mondo scolastico, troppi per essere analizzati in una volta. In particolare sono due i punti su cui vale la pena di soffermarsi: il maggior potere in merito alla gestione dell’offerta formativa e delle risorse umane riservato al preside (dirigente scolastico) e l’allargamento del progetto di alternanza scuola-lavoro. 

In merito al primo punto, come in tutti gli aspetti della vita, occorre discernere tra l’intenzione e la realizzazione: se il concetto è sicuramente da incoraggiare in termini assoluti, non è possibile esimersi dalle questioni che l’attuazione della norma comporta. In primo luogo, il preside ha assunto un rilievo maggiore nella gestione dell’offerta formativa e del dialogo con gli enti locali, assumendo così la capacità di indirizzare il percorso formativo del suo istituto; tale indirizzo rimane sottoposto al vaglio del collegio docenti e del consiglio d’istituto. In secondo luogo, il preside ha il potere di assumere per un periodo di 3 anni i docenti che ritiene migliori per l’offerta formativa dell’istituto. Infine, può premiare economicamente i docenti meritevoli. Occorrono delle riflessioni: la scelta di indirizzare la scuola pubblica verso una dimensione manageriale ha i suoi vantaggi, in particolare la direzione di un percorso formativo peculiare ha molti lati positivi (specializzazione, dialogo col territorio etc.). Anche la selezione dei docenti migliori, e di conseguenza la concorrenza, derivante dal potere decisionale del preside in merito ad assunzioni è positiva; così come lo è la retribuzione maggiore per il professionista di maggior caratura (in un quadro che dovrebbe comunque vedere un aumento generalizzato dello stipendio dei docenti). Questa è la teoria. La pratica invece può comportare casi di favoritismo e nepotismo nella selezione dei docenti; ma non solo, una dimensione manageriale può anche comportare un interesse economico nell'attrarre più iscritti possibili e di conseguenza potrebbe portare ad una facilitazione in termini assoluti dell'insegnamento rispetto ad altre scuole, innescando un circolo vizioso preoccupante. In conclusione, una regolamentazione e un controllo dello stato sulle decisioni del preside potrebbe dare esiti positivi e correggere una riforma che ha alla base un ideale incentrato ad elevare la qualità formativa ma che può comportare anche un effetto contrario.

L’alternanza scuola-lavoro introdotta nei licei e ampliata negli istituti tecnici è stata invece un fallimento. Essa cercava di sviluppare un legame più stringente tra mondo dell’istruzione e del lavoro e correggere uno dei problemi che maggiormente attanagliano il paese: quello della difficile integrazione lavorativa per chi esce dal percorso formativo. Se per gli istituti tecnici l’idea di un ampliamento è sicuramente percorribile (se corretta nella sua attuazione che spesso dà luogo a casi di sfruttamento o dispersione del capitale umano), la misura introdotta nei licei solleva degli interrogativi enormi in quanto difficilmente lo studente liceale entra immediatamente nel mondo del lavoro, bensì passa per l’università. Una migliore connessione tra licei e università e, successivamente, tra università e mondo del lavoro, sarebbe sicuramente una via più efficace. 
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In conclusione, i finanziamenti scarseggiano e l’ultima grande riforma scolastica è intervenuta su punti nodali in modo positivo nell’idea soggiacente all’azione ma in modalità sconclusionate che hanno lasciato la situazione dell’istruzione pubblica nelle pessime condizioni in cui versava. 
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    DI FRANCESCO FERRUCCI

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