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PARITÀ DI GENERE

OSTACOLI E CONTRADDIZIONI DI UNA LENTA CONQUISTA

L’interruzione volontaria di gravidanza e il problema degli obiettori

20/1/2022

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​Quello dei medici obiettori di coscienza è un problema, un problema enorme per il semplice fatto che si traduce nella negazione di un diritto che dovrebbe essere garantito dalla legge italiana, nello specifico dalla legge 194 del 1978, la quale regola le norme sulla tutela della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza. Sono passati più di quarant'anni, ma in tutto questo tempo non si è potuto osservare un effettivo e rassicurante riscontro nell’applicazione della legge e nel garantire un diritto che troppo spesso viene negato a chi vorrebbe esercitarlo. 
Il principale ostacolo sono, come accennato, gli obiettori di coscienza, ovvero tutti quei medici o membri dello staff sanitario che si rifiutano di ottemperare ad un dovere che sia contrario ai loro principi etici o religiosi.

Per dare conto della situazione possiamo ricorrere ai dati ricavati dalla Relazione sull’attuazione della legge che il Ministero della salute è tenuto a presentare periodicamente. Il quadro che questi numeri tratteggiano è piuttosto chiaro: i dati aggiornati al 2018 mostrano come il 69 % dei ginecologi italiani sia obiettore di coscienza.
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Il dato si avvicina o supera l’80% in ben cinque regioni e nella provincia autonoma di Bolzano e raggiunge il 92,3 % in Molise. Da tutto ciò segue che nel 35,1 % delle strutture dove sia presente un reparto di ginecologia od ostetricia non è possibile accedere all’interruzione volontaria di gravidanza. 

Un ulteriore punto di discussione da affrontare consiste nel testo stesso della legge.
«Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite.» 
Il primo articolo presenta già una criticità da non sottovalutare: ciò che lo Stato si impegna a difendere, infatti, non è il diritto a poter liberamente interrompere una gravidanza qualora una donna lo ritenga necessario, ma il diritto ad una procreazione cosciente e responsabile, quasi a sottintendere che le donne non siano autonomamente in grado di affrontare una scelta.
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​Si afferma inoltre che con questa legge lo Stato vuole impegnarsi a tutelare la maternità, e quindi la salute della donna, ma anche a riconoscere il valore della vita umana dal suo inizio, ovvero quella dell'embrione o feto, che la legge considererebbe come una “forma di vita”. 
Se a ciò aggiungiamo le motivazioni specifiche precisate nell’articolo 4, che di fatto limitano le casistiche che permettono l’interruzione di gravidanza, possiamo facilmente giungere alla conclusione che in alcun modo in Italia alla donna viene concessa la libertà di abortire.
Tale diritto, infatti, è legittimato solo in virtù di precisate motivazioni, che sono ristrette quasi esclusivamente alla tutela della salute, ed è sempre sottolineato come debba esserci un compromesso o una qualche sorta di equilibrio fra i diritti esercitabili dalla donna e quelli riconosciuti all'embrione o feto.

La legge 194 diventa così un paradosso vivente, una norma che almeno teoricamente dovrebbe garantire un diritto, ma che alla prova dei fatti mette a disposizione tutta una serie di strumenti che consentono al personale sanitario di sottrarsi senza troppe difficoltà al loro dovere, lasciando sempre più donne in balia di un sistema che continua a negare i loro diritti.
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    DI BIANCA BERTINI
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