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30 anni dal Raphael

29/4/2023

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La testimonianza di Umberto Cicconi, il fotografo di Craxi, del lancio delle monetine

Esattamente trent’anni fa un eterogeneo gruppo di manifestanti composto  prevalentemente da gente del Pds e del Msi si riversa davanti all’Hotel Raphael,  residenza romana di Bettino Craxi, per protestare contro il sistema. Per la Prima  Repubblica è l’inizio della fine. Cercherò di raccontare quell’evento avvalendomi  anche della testimonianza diretta (rilasciatami in una recente intervista) di Umberto  Cicconi, fotografo personale e fedelissimo di Craxi, che quella sera era lì accanto al  suo amico davanti ad un’incessante pioggia di monetine. Ma andiamo con ordine. 
​Il 29 aprile 1993 si dovevano votare in Parlamento sei autorizzazioni a procedere  chieste dai magistrati contro Craxi. Ben quattro su sei furono respinte. Per molti  quella era la prova che il sistema politico stava arrivando a tutto pur di  autopreservarsi dall’inchiesta di Mani pulite. Gran parte della stampa reagì con  fortissima indignazione contro il risultato di tale voto, prendendo nettamente  posizione. I partiti di opposizione prepararono manifestazioni di protesta per il giorno  seguente, in primis il Pds e il suo segretario Achille Occhetto, che organizzò una  protesta proprio a piazza Navona, a due passi dalla residenza di Craxi. La tensione  stava crescendo sempre di più. Era la sera del 30 aprile quando gruppi sparsi di  facinorosi si ammassarono davanti all’Hotel Raphael, aspettando che l’ex segretario  del Psi uscisse. Intonavano cori da stadio e lanciavano insulti e minacce di ogni  genere. Umberto Cicconi, che quel giorno si trovava là in Hotel come d’abitudine,  ricorda che poco prima dell’arrivo dei manifestanti al Raphael i servizi segreti  avvertirono Craxi del pericolo imminente e gli suggerirono di lasciare la sua  residenza quanto prima. Il leader socialista infatti si sarebbe dovuto recare comunque di lì a poco da Giuliano Ferrara per rilasciare un’intervista al programma L’istruttoria (cfr. Radio Radicale, archivio, intervista 30/04/93). Nel frattempo però si riversano rapidamente presso Largo Febo davanti all’Hotel sempre più persone, che agitano  con le mani banconote e monetine intonando a squarciagola “Bettino vuoi pure  queste, vuoi pure queste?”. Intanto Craxi dal suo appartamento al quinto piano scende  nella hall al piano terra. Arrivato il momento di uscire -ricorda Cicconi- si avvicinano  a Craxi degli uomini addetti alla sua sicurezza, che gli consigliano di uscire del retro,

da una porta di servizio. Lui con tono offeso e adirato risponde: “io non scappo!”. A  tutti coloro che gli propongono una via di fuga alternativa egli ribatte sdegnosamente: “Qui, a casa mia, nessuno mi può impedire di uscire dalla porta principale”. Così si  precipita velocemente verso l’ingresso principale per uscire fisicamente dall’Hotel e  politicamente di scena. Sono le 20,05. “La macchina è pronta?”, chiede lui. Gli  rispondono affermativamente. “Bene, allora andiamo!”. Non appena esce fuori, una  grandine di monetine e oggetti di ogni genere si riversa come una valanga pronta a  schiacciare un uomo politico, il suo partito e l’intera Prima Repubblica. Subito gli  viene aperta la porta e sale in auto. Un istante dopo anche Cicconi entra in macchina  seduto rispettivamente davanti a lui e accanto al conducente. Nell’auto blindata  entrano in quattro: Nicola Mansi (l’autista), Umberto Cicconi a fianco, dietro a destra  Craxi e a sinistra Luca Josi. Cicconi mi racconta che la valanga di monetine e oggetti  vari che gli arrivò addosso fu tale da procurargli anche una piccola ferita in testa. Dei  quattro infatti lui era quello più esposto al gettito. Interessante notare anche la figura  di un anonimo poliziotto a fianco a Cicconi che cercava di fare da scudo umano con il  suo corpo. Una persona che non c’entrava niente con il cosiddetto establishment, ma  che quel giorno stava semplicemente cercando di fare il proprio lavoro. Nell’arco di  un minuto si crea il caos più totale. Giornalisti che provano a fotografare e a  riprendere. Poliziotti che cercano di respingere l’onda d’urto dei manifestanti che  vogliono farsi largo sempre di più sfondando il cordone di sicurezza. Manifestanti  che lanciano di tutto e si fanno avanti. “Tiratori di rubli”, commenta con aria  sprezzante Craxi in macchina. L’auto blindata si fa così avanti tra i manifestanti;  alcuni di essi si mettono a rincorrerla per un po’, poi vengono seminati. Poco dopo  Cicconi si gira dietro e, osservando Craxi, nota come egli sia rimasto “imbalsamato,  imbambolato, fermo”. Vige un silenzio di tomba lungo il tragitto. All’altezza di  piazza Venezia Cicconi si volta ancora dietro e nota come Craxi sia rimasto sempre  di stucco, immobile e pensieroso; gli rivolge così la parola per rompere un po’ il  ghiaccio: “ma era una scena di un film?”. Craxi volge lo sguardo verso di lui, lo fissa  in modo serio e dopo un po’ gli dice: “Io questo non me lo sarei mai aspettato”.  Cicconi ricorda che “in quel momento Bettino era di una serietà enorme; nessuna  lacrima, ma dentro di sé piangeva dalla vergogna, glielo leggevo in faccia”. 

Alle 20,18 giunsero così presso il Centro Safa Palatino a piazza Santi Giovanni e  Paolo. Quella sera Craxi con tono molto pacato, dovuto probabilmente all’afflizione  provata, rilasciò una lunga intervista a Giuliano Ferrara. Quest’ultimo ricorda di aver  trovato Craxi “molto avvilito, molto cupo” quel giorno. Il giornalista fece ascoltare  qualche intervista presa a campione tra la gente che si trovava lì a piazza Navona  quella sera e poi gli chiese di commentare l’accaduto. “Dei ragazzi confesso che non  riesco ad avere un sentimento diverso dall’affetto indipendentemente da quello che 

dicono nei miei confronti. Altri vedo che sono vecchi militanti comunisti molto ligi  alla parola d’ordine del partito. Quello che parlava al microfono invece era un grande  bugiardo (riferendosi all’intervento di Occhetto durante la manifestazione). Perché lui  era perfettamente consapevole del funzionamento illegale del sistema di  finanziamento dei partiti, del suo compreso, e non ha nessun diritto in questa materia  di ergersi a giudice mio o di altri. Questa è una cosa che profondamente mi ripugna”.  L’intervista prosegue e, come anche lui stesso dice più avanti, è ormai sempre più  inevitabile che un’intera classe politica esca di scena per far posto al nuovo; si  domanda però da chi e soprattutto da che cosa sia rappresentato il nuovo. 

Sono passati ormai trent’anni da quel 30 aprile 1993 e da quell’episodio di piena  sfiducia da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni. Episodio che a buon  diritto è stato definito l’atto che ha segnato la fine della Prima Repubblica. C’è da  dire che il sistema di corruzione sviluppatosi in quei decenni risultava ormai sempre  più immorale e insostenibile ed è ovvio che presto o tardi i nodi sarebbero venuti al  pettine. Tuttavia, secondo quanto affermato da quasi tutti gli storici e i politologi, il  crollo del sistema partitico ha portato ad una crescente deriva populista che si è fatta  sempre più largo in Italia e che attualmente è ancora presente sotto altre forme. Il  sentimento di “sfasciare tutto”, come disse ai giornalisti una signora lì presente quella  sera, era infatti diventato più forte del ricostruire qualcosa. Ebbene credo che proprio  quell’espressione ben esemplifichi sia il gesto delle monetine, sia le intimidazioni, sia  in generale il clima che si respirava in quei mesi. La voglia di abbattere ma  soprattutto di semplificare la complessità si era rivelata, come spesso accade nella  storia, più forte del costruire qualcosa che fungesse da modello alternativo a quello  che si stava distruggendo. Abbattendo quei partiti che per molti anni avevano guidato  l’Italia, si stava contemporaneamente demolendo anche quell’insieme di ideali,  ideologie e valori caratterizzanti del sistema partitico. Da Tangentopoli in poi è come  se i cittadini avessero progressivamente smesso di credere in qualcosa. E’ ovvio che  la sfiducia nei confronti dei partiti non nasce solo dal clima generato da Mani pulite,  ma è innegabile notare un certo stacco relativo specificatamente a quegli anni. A  trent’anni da quei fatti, c’è da chiedersi se la politica italiana sia qualitativamente  migliorata o peggiorata, ma questa è un’altra storia. 

Vorrei concludere così con le parole che Francesco Saverio Borrelli, alla guida del  pool di Mani Pulite, ha pronunciato qualche anno dopo la fine di Tangentopoli: “se  fossi un uomo pubblico di qualche Paese asiatico, dove come in Giappone è costume  chiedere scusa per i propri sbagli, vi chiederei scusa: scusa per il disastro seguito a  Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare  poi in quello attuale”. 
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