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Avvocatura: una corporazione alla frutta

29/7/2023

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Mattia Carramusa

Federazione Giovani Socialisti Sicilia


Una delle più antiche e resilienti corporazioni italiane oggi rappresenta un ex ceto borghese morente in seria difficoltà, che vede contrapposte un esiguo censo elitario e un estesissimo ceto curiale in povertà, assoluta o relativa. 
​
Stanti i dati più recenti dei vari Ordini circoscrizionali, sono sempre di più gli avvocati che lasciano la professione rispetto a quelli che entrano. Ancor più: sono sempre più poveri gli avvocati, soprattutto quelli giovani, e sono sempre più giovani quegli avvocati che scelgono di “abdicare”. Perché? Se guardiamo tutti gli interventi normativi degli ultimi vent’anni, e guardiamo anche ai report economici, ce ne rendiamo conto. 

Un avvocato su tre versa in stato di povertà assoluta, dato che si eleva a due su tre se consideriamo gli iscritti all’ordine da meno di dieci anni. La “ricchezza” forense è, ad oggi, in mano a un gruppo estremamente esiguo di curiali. Sono pochi a potersi “permettere” l’avvocatura, ancor meno sono quelli che vivono tranquillamente grazie alla professione legale. 
I costi sono sempre più alti, e sempre meno sono le possibilità di incasso delle parcelle o soddisfazione dei crediti in esazione. Gli interventi sono stati determinanti e deterrenti. Alle gabelle corporative e agli oneri tributari si sono aggiunti anche oneri su cui terzi soggetti lucrano. Ringraziando il ministro dem Orlando, oggi gli avvocati hanno parametri molto più bassi rispetto ai tariffari precedenti, e l’introduzione dell’assicurazione professionale è stata una tegola gigantesca su un ceto professionale divelto da corporativismo e politica.
Una delle professioni più nobili nella storia dell’umanità è, oggi, possibilità per pochi. Già da pratica forense e conseguente abilitazione. Esame, quest’ultimo, che nulla ha a che vedere con la funzione pratica del diritto esercitata dall’avvocato. Pratica forense troppo spesso svilente per gli stessi praticanti, che ora hanno anche l’obbligo di frequentare le scuole forensi. 
Insomma: per “limitare” la povertà dell’avvocatura non si fa nulla per “rompere” quel sistema corporativo che la alimenta e ne rappresenta, oggi, la radice. Non si opera per garantire retribuzioni sufficienti, soprattutto per chi lavora col gratuito patrocinio. Né si opera ripensando la funzione dell’avvocato e dell’avvocatura in una logica di mercato o in una logica sociale. 
L’avvocatura non è, a differenza di narrative e aspettative borghesi, una professione che permette di emanciparsi o di “elevarsi”. Non è uno status. È una professione con un elevatissimo tasso di povertà, invece, con una impostazione corporativa che permette la conservazione di un censo ristretto, lo sfruttamento di largo ceto curiale in povertà e di subissare tirocinanti, spesso privati non solo di retribuzioni ma finanche di rimborsi spese e, per di più, costretti a dover sborsare somme ingenti per sperare di abilitarsi con le scuole di formazione. 
È dunque importante intervenire sulla giustizia. È necessario anzitutto ribaltare la piramide dei patrocini a spese dello stato, riducendo drasticamente i tempi di liquidazione e rovesciandone l’accesso, e disarticolare il sistema attuale delle difese d’ufficio. Soprattutto, è necessario ridurre gli esborsi a carico dei praticanti (scuole di formazione forensi a pagamento, costi fissi per la pratica e per l’accesso all’esame di abilitazione eccetera), sostituendo il tirocinio con un vero e proprio contratto di apprendistato professionale. Su tutti, è necessario disarticolare il sistema corporativo attorno a cui l’avvocatura è ancora avvinghiata. E non solo l’avvocatura.
Gli avvocati, dopotutto, svolgono una funzione pubblica di primaria importanza. E non è accettabile, per uno stato di diritto, che metà degli avvocati nello scorso triennio abbia fatturato meno di cinquemila euro l’anno. Né è accettabile che una fetta importante di avvocati scelga di abbandonare la professione preferendo lavori precari all’avvocatura. 
Uno stato che permette all’avvocatura di essere elitaria con ampie fette di povertà e che permette lo sfruttamento dei praticanti è un’entità che mina e ripudia lo stato di diritto. Se non altro nella forma di giustizia sociale pratica, in forme individuali o collettive. 
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