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CBD illegale: un ritorno al passato

28/9/2023

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Ettore Di Mattia

Giovane Avanti! Sicilia


​A partire dal giorno 22 Settembre non è più possibile, nel nostro Paese, acquistare “prodotti da ingerire a base di cannabidiolo”. Questa è la decisione del ministro della Salute Orazio Schillaci, il quale ha deciso di sbloccare un atto del suo predecessore Roberto Speranza, tramite il quale il CBD viene inserito nella tabella delle sostanze stupefacenti e quindi acquistabile solo tramite ricetta medica.

Il decreto ricalca pedissequamente quello contenuto nella Gazzetta Ufficiale dell’1 ottobre 2020 che venne congelato dopo le proteste di tutti gli operatori del settore, che lamentavano l’iniquità della decisione. Va sottolineato che con il decreto del 7 agosto a essere maggiormente colpite saranno le aziende italiane operanti in Italia, dato che quelle appartenenti alla filiera potranno commerciare tali prodotti all’interno dell’UE. Quindi il provvedimento è in netto contrasto con quella che è la normativa europea in materia di organizzazione del mercato comune e di antitrust, ponendo vincoli anche sul libero mercato ove vige già una sentenza della Corte di giustizia europea che era intervenuta in Francia, stabilendo che il CBD prodotto in uno Stato membro europeo deve poter circolare anche negli altri paesi. 

La Corte di Giustizia UE ha infatti dichiarato illegittimi i divieti nazionali. La sentenza 19/11/20 chiarisce che gli Stati membri non possono vietare la commercializzazione del cannabidiolo nei propri territori, qualora esso sia legittimamente prodotto in altri Stati membri mediante estrazione dalla pianta di Cannabis sativa L. nella sua interezza, infiorescenze comprese.
La decisione sul caso nasce dal ricorso di due ex-amministratori di una società condannati in base alla normativa nazionale francese risalente al 1990 che vieta l’utilizzo per fini commerciali di prodotti derivati da parti diverse dalle fibre e semi di canapa. 

La Corte d’appello di Aix-en-Provence ha perciò richiesto alla Corte di Giustizia europea di pronunciarsi sulla conformità al diritto UE della normativa nazionale, nella parte in cui essa punisce con sanzione penale la commercializzazione del CBD legalmente prodotto in un altro Stato membro, per il solo fatto che esso sia stato estratto dalla Cannabis sativa L. nella sua interezza e non soltanto dalle sue fibre e semi. Il cannabidiolo, secondo i giudici di Lussemburgo, non può venire qualificato come “prodotto agricolo” ma nemmeno come “stupefacente”. 
Il diritto dell’Unione affida invero le definizioni di ‘sostanza psicotropa’ e ‘stupefacente’ alle rispettive Convenzioni delle Nazioni Unite, le quali non consentono di classificare il CBD in alcuna delle categorie. La Corte di Giustizia europea statuisce quindi l’incompatibilità del divieto francese alla vendita di CBD naturale con il principio di libera circolazione delle merci. I divieti nazionali potrebbero venire giustificati soltanto da obiettivi di tutela della salute pubblica, ai sensi dell’articolo 36 TFUE, a condizione però di dimostrare la loro idoneità e proporzionalità, in vista del raggiungimento di obiettivi specifici. Il giudice nazionale quindi, prima di applicare la legge restrittiva della libera circolazione nel mercato interno, deve valutare con attenzione la sua effettiva fondatezza e proporzionalità. Sulla base di una valutazione scientifica del rischio e non di opinioni o considerazioni ipotetiche.

È abbastanza chiara quindi la finalità del provvedimento: favorire le case farmaceutiche che si accaparreranno una grossa fetta del mercato italiano tramite una sostanza che stupefacente non è. Spesso ad essere stupefacente è l’ottusità ideologica che assume connotati ilari. Ne é un esempio la dichiarazione del consulente del Dipartimento per le politiche Antidroga Andrea Pignataro secondo il quale: “ con questo risultato possiamo salvare la vita di tanti ragazzi e tutelare la loro salute”.  

A parte lo slogan da quinta elementare che ricalca certe frasi anni 20’(“tutti gli uomini cammineranno di nuovo eretti, tutte le donne sorrideranno e tutti i bambini rideranno”) non si capisce bene da cosa bisognerebbe proteggerli dato che la sostanza in questione non produce effetto psicotropo alcuno. L’idea scellerata che sorregge il decreto è che, se davvero il cannabidiolo è utile ed efficace contro alcuni disturbi come l’epilessia, come è stato dimostrato da diverse prove scientifiche, allora è giusto che sia trattato come un farmaco e la sua vendita non avvenga libera da controlli e autorizzazioni. È chiaro però che quello appena compiuto dal Ministero della Salute è il primo passo verso lo stop totale della vendita di questi prodotti. Attenzione consumatori di camomilla! Potreste essere i prossimi!

Evidentemente,  è doveroso ricordare la differenza che esiste tra THC e CBD. Anche se dotate di struttura molecolare molto simile sono due sostanze profondamente differenti. La prima infatti, si lega ai recettori presenti nelle cellule nervose, producendo effetti psicoattivi, mentre il secondo si unisce ai sistemi periferici e non ha conseguenze psicotrope.
Il CBD si lega infatti ai recettori CB2, presenti nei sistemi periferici del nostro corpo, in particolare in quello immunitario. Inoltre, il CBD è in grado di interferire con l’azione del THC, riducendone l’effetto psicotropo. Il THC invece, psicoattivo, si lega facilmente ai recettori CB1, situati principalmente nel sistema nervoso centrale: per questo, il THC può avere effetti sulla mente della persona, provocando euforia o rilassamento. Possiamo quindi affermare che la dichiarazione del consulente del Ministero è priva di qualsiasi base scientifica.

Ovviamente nessuno di noi sperava in una svolta legalizzatrice del Presidente del Consiglio ma nemmeno un ritorno al proibizionismo.
Se si pensa ad una politica fallimentare dei primi del ‘900 non può non tornare alla mente il disastroso esperimento del proibizionismo.
Dai tempi di Al Capone ai giorni nostri il proibizionismo non ha di certo stroncato traffici ritenuti illeciti dalle autorità e non ha abbassato il numero di persone che a quei mercati illegali si sono rivolti. Dall’alcool alle droghe pesanti, passando per la cannabis.

L’idea del Senatore Volstead, promotore della legge sul proibizionismo, ebbe l’approvazione anche grazie al consenso dei grandi industriali statunitensi, convinti che gli operai senza alcool sarebbero stati più produttivi e non avrebbero sperperato denaro nei bar preferendo acquistare beni. Non fu così e nacque anche un problema di salute pubblica: fece infatti la comparsa l’alcool fai da te, ben più nocivo per la salute rispetto alle bevande alcooliche prodotti dalle ditte specializzate.
È ormai chiaro che soluzioni come queste non fanno altro che aggirare il problema in nome di un turbato ordine pubblico.

La legalizzazione della cannabis ad esempio viene caldeggiata da anni, e non da “centri sociali e sinistra radicale” come bofonchia qualche reazionario, ma dalla Commissione Antimafia che già nel 2014 nella relazione annuale ammetteva: “senza alcun pregiudizio ideologico, proibizionista o antiproibizionista che sia, si ha il dovere di evidenziare a chi di dovere, che, oggettivamente, e nonostante il massimo sforzo profuso dal sistema nel contrasto alla diffusione dei cannabinoidi, si deve registrare il totale fallimento dell’azione repressiva” o meglio “degli effetti di quest’ultima sulla diffusione dello stupefacente in questione”.

Questa scelta avrebbe tre conseguenze di impatto immediato: togliere il monopolio della vendita alle mafie privandole di una lautissima forma di guadagno, introdurre un gettito nelle casse dello stato di oltre 7 miliardi l’anno e ridurre sensibilmente l’affollamento delle carceri. Secondo la ricerca del 2017, realizzata da Ferdinando Ofria, docente di Politica economica all’Università di Messina, e Piero David, ricercatore al Consiglio nazionale delle ricerche, le entrate complessive che lo Stato potrebbe ottenere dalla legalizzazione della cannabis, ricavabili dai risparmi dati dalla riduzione della spesa annua per i detenuti e per le operazioni di ordine pubblico e sicurezza, e dalle entrate legate alla vendita legale di cannabis si aggirerebbe intorno ai 770 milioni di euro, mentre le entrate sarebbero di 6,6 miliardi. In totale, quindi, lo Stato potrebbe ricavare intorno ai 7,4 miliardi di euro all’anno. 
A detta degli autori dello studio, si tratta però di un calcolo spannometrico che varia in base a diversi fattori presi in considerazione nello studio. A voler basarsi solamente sui sequestri della sostanza stupefacente nel periodo 2014-2018 e sulla segnalazione della Dna,che ipotizza che la sostanza circolante sia solitamente dieci volte maggiore a quella sequestrata, considerando un prezzo medio di 9,50 al grammo per l’hashish, 8,50 euro per la marijuana e 7 euro per le piante, la ricerca stima un fatturato complessivo di 11,6 miliardi di euro. 

Per quanto riguarda invece la questione del sovraffollamento carcerario basterebbe sottolineare i danni creati da una legge proibizionista come la Fini-Giovanardi.
La legge n. 49/2006 aveva modificato sostanzialmente la precedente normativa antidroga, la cosiddetta “Iervolino-Vassalli” che aveva il pregio quantomeno di distinguere tra droghe cosiddette “leggere” e droghe “pesanti” attraverso due apposite tabelle pubblicate dal Ministero della Salute. In virtù di tale distinzione, cambiavano anche le sanzioni a seconda del tipo e della quantità di stupefacente posseduto.In particolare, era prevista una reclusione dai due ai sei anni più una multa per la produzione e lo spaccio di droghe “leggere”, mentre si rischiavano dagli otto ai venti anni di carcere se si fosse trattato di droghe “pesanti”.
Nel caso di uso personale, l’art. 75 del T.U. n. 309/1990, prevedeva delle sanzioni amministrative, prima fra tutte un avvertimento del prefetto, al quale seguivano, in caso di recidiva, provvedimenti concreti come la sospensione della patente o del passaporto per un massimo di tre mesi.

La “Fini-Giovanardi”, al contrario, aveva annullato la distinzione tra droghe “leggere” e “pesanti”, accomunandole in un’unica tabella. A seguito di tale operazione, si era ovviamente verificato un consequenziale inasprimento delle pene. A causa della sua durezza, la “Fini-Giovanardi” ha contribuito molto come una delle cause che ha portato al sovraffollamento delle carceri italiane negli ultimi anni, dato che anche per un piccolo spacciatore di marijuana si prevedeva quasi sicuramente il carcere, con pene che andavano dai due ai sei anni. 

Fortunatamente, dopo la sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima la legge n. 49/2006, 
 il Consiglio dei Ministri ha varato il decreto legge n. 36/2014 (c.d. decreto Lorenzin), il quale costituisce oggi la normativa principale in materia di stupefacenti in Italia, ma questo piccolo passo avanti non ha registrato significativi cambiamenti sul fronte carcerario.
Secondo l’associazione Antigone “nelle galere italiane al 28 febbraio 2021 i detenuti erano 54. 372. Il 35% della popolazione detenuta si trova in carcere per violazione delle norme che riguardano lo spaccio o il semplice consumo di cannabis e simili”. 

La nostra normativa continua ad essere incentrata sul sistema penale, piuttosto che su politiche pubbliche di governo e regolamentazione del fenomeno, il cui effetto è quello di riempire le carceri di persone che usano droghe, per le quali la detenzione rappresenta un danno profondo per la loro immagine sociale e per la propria vita” . “La Relazione al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze 2021 ( i dati raccolti sono del 2020) parla espressamente di un 74% delle oltre 32.879 segnalazioni ex art 75 Testo Unico stupefacenti per detenzione di cannabis e di un 19% per cocaina. Il 97% delle segnalazioni riguarda  minorenni alla loro prima segnalazione. Tuttavia se il 68% dei procedimenti amministrativi si conclude con una ammonizione il 31% è oggetto di applicazione di sanzioni amministrative con le conseguenze para penali che esse prevedono. I programmi terapeutici sebbene rappresentino una valida risposta alla segnalazione amministrativa risultano residuali. Solo l’1% aderisce al programma presso i SerD territoriali”. 

Certi fautori di politiche repressive non vogliono ammettere il completo fallimento del modello proibizionista che delega la risoluzione di un problema socio-sanitario al diritto penale facendolo diventare una questione di ordine pubblico. È abbastanza facile prevedere come questo governo, inizialmente soffermato sui derivati del CBD, tenderà ad introdurre delle norme che limiteranno la libera vendita di queste sostanze in nome di una non bene identificata ideologia che poggia le proprie basi su premesse antiscientifiche.
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