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Fatta una guerra se ne dimentica un’altra

6/11/2023

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Riccardo Imperiosi

Direttore Giovane Avanti!


​Si sa, il livello di attenzione e concentrazione negli anni è drasticamente calato, soprattutto con l’avvento dei social media e l’eccessiva sintetizzazione delle informazioni che questi portano con sé. Non dobbiamo stupirci quindi se le notizie, complici le decine di canali con cui veicolarle immediatamente, hanno vita breve. Come poter pretendere quindi di poter seguire due conflitti contemporaneamente? Dev’essere alquanto complicato, lo capisco.

Chiaramente l’apertura è una provocazione, sono perfettamente a conoscenza delle motivazioni commerciali - in particolare quelle legate alle visualizzazioni delle inserzioni pubblicitarie - che di fatto gestiscono un progetto editoriale nel mondo (l’Italia) di oggi. Credo però che non avere piena contezza dello scenario globale sia una grave lacuna per il servizio che il mondo dell’informazione dovrebbe dare ai cittadini. 

Prendiamo ad esempio l’improvviso riacutizzarsi delle tensioni in Nagorno-Karabakh, nella Striscia di Gaza e il perdurare della guerra in Ucraina. Ma potrei citare l’Africa e in particolare le regioni del Sahel, dove negli ultimi mesi i colpi di stato sono tornati ad essere i protagonisti dei titoli di giornali di tutto il mondo.
La normalizzazione dei conflitti non è sufficiente 

Per semplicità, prendiamo adesso in considerazione solo i conflitti in Ucraina e quello tra Israele e Hamas. Già prima dell’esacerbarsi delle tensioni in Israele le notizie sull’Ucraina iniziavano a scarseggiare. Fa parte della fase di “normalizzazione” del conflitto: in pratica il perdurare di un conflitto entra nella nostra quotidianità a tal punto che la sua stessa presenza non assume più il carattere di un evento straordinario, ma quasi - ahimè - di un’abitudine. Un po’ quel che è successo con l’Iraq o l’Afghanistan: fino a un cambio di scenario radicale - quindi un evento straordinario - l’ordinarietà del conflitto non “rende sufficientemente interessante” l’aggiornamento quotidiano delle notizie sullo stesso.

Ma adesso la situazione è diversa. 
Primo motivo: quel che è successo in Israele è esattamente quell’evento straordinario all’interno di un conflitto ormai ordinario di cui parlavo poc’anzi. Fin qui appare chiara la similitudine col ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan e la conseguente presa del potere dei talebani. Piccola parentesi: da notare come anche l’evoluzione iper-liberticida - e ovviamente pan-maschilista - della giurisprudenza talebana (se così si può chiamare) sia, ad oggi, considerata in minima parte dalla stampa mondiale rispetto ai primi giorni della ritirata a stelle e strisce. 
Secondo motivo: gli eventi arrivano in un momento in cui l’attenzione dell’Europa e del resto del mondo - USA compresi - è totalmente concentrata sul conflitto in Ucraina, che ad oggi si è dimostrato essere uno spartiacque nella geopolitica globale del nuovo millennio, quantomeno per lo scenario in cui si sta svolgendo, lo stesso main stage dei due conflitti mondiali.
Terzo motivo, il più importante: nuove polarizzazioni sono all’orizzonte, con esse l’aumento esponenziale di una guerra su vasta scala.

Il conflitto in Israele

Non mi avventurerò in analisi approfondite del riacutizzarsi del conflitto in Israele. Vorrei però esprimere la posizione di Giovane Avanti!.
In primis, quello che sta succedendo in Israele e nella Striscia di Gaza è assolutamente drammatico. In Italia - ma anche nel resto del mondo, è abbastanza fisiologico - si ha la tendenza a trasformare l’analisi in tifo, il sostegno quasi in devozione. Ed è così che ci si ritrova a giustificare ignobili crimini di guerra solo ed esclusivamente perchè chi li commette è il primo ad esser stato aggredito. Oppure si giustificano ancor più efferati - nei metodi ma non nella scala - crimini di guerra solo perchè chi li commette è tra le due parti quella oppressa.

A ragione politica o meno, dopo la fine della seconda guerra mondiale una terra è stata devoluta come se fosse un contenitore vuoto, senza una popolazione all’interno. Vero, è stato fatto per una causa molto nobile: dare la terra promessa a un popolo da sempre oppresso, quello ebreo, che aveva appena ricevuto il peggior trattamento che un essere umano avesse visto. Ma il risultato è stato un trapianto coatto di un popolo nell’altro, senza che questi due avessero la capacità - e magari in quel momento la forza morale - di comprendersi e quantomeno tollerarsi. Così si è arrivati allo scontro totale non solo tra due popolazioni, ma tra due religioni assolutiste. Quindi, l’esistenza di una questione palestinese è innegabile: non si tratta solo di cambiare colonia - era un protettorato inglese - ma di convivere forzatamente con un altro popolo, che nel frattempo vuole - la legge, i vincitori della guerra e, sinceramente, il mondo civile sono dalla sua parte - la tua terra. Il messaggio che vorrei trasparisse è che l’oppressione storica di un popolo come quello ebreo non nega necessariamente l’oppressione attuale del popolo arabo nella terra promessa, tanto più visto l’evidente squilibrio di forze messe in campo. 

D’altro canto, l’esasperazione di queste tensioni non hanno fatto che animare le frange più estremiste di due religioni che già di per sé tendono a rimanere molto ortodosse, condizione in cui le fazioni ai confini della razionalità proliferano: così nasce Hamas, che altro non è che un gruppo terroristico. Hamas non sono i palestinesi, non è la Palestina. O perlomeno la Palestina e i palestinesi non sono solo Hamas. Di fatto però l’incursione via terra di inizio mese è un chiaro attacco terroristico - il taglio del nastro di una nuova, sanguinosa guerra - al cuore democratico del Medio Oriente, anche questo è innegabile.

Perché è importante il sostegno a Israele

Chiarito che non si tratta di una partita di calcio in cui fare il tifo, ma di un cruento conflitto in cui migliaia di civili - tra cui donne, anziani e bambini - stanno ingiustamente perdendo la vita in una gara (questa si) a colpi di crimini di guerra, il sostegno a Israele è fondamentale e il motivo si ricollega al terzo motivo del paragrafo precedente.

Vediamo adesso le reazioni internazionali a questo conflitto, riassunte recentemente da Torcha. 
Chi sostiene Israele sono gli USA e il Canada nel Nord America; principalmente Brasile, Paraguay e Argentina in Sud America; praticamente tutta l’area europea fino alla Russia, Georgia compresa; India, Tailandia, Corea del Sud e Giappone in Asia; solo Ghana e Kenya in Africa; chiaramente nessuno in Medio Oriente. Tutti i Paesi del G8 (Italia, Francia, Germania, Regno Unito, USA, Canada, Giappone e i rappresentanti dell’UE) sostengono Israele.
Troviamo poi chi rimane equidistante semplicemente condannando ogni forma di violenza, chi condanna l’azione di Israele e chi sostiene quella di Hamas. In questi gruppi troviamo: Russia, Cina, Sudafrica, Tunisia, Pakistan, Arabia Saudita (condannano ogni forma di violenza); Tunisia, Iraq, Afghanistan, Corea del Nord, Cuba, Colombia, Venezuela (condannano Israele); Messico, Algeria, Siria, Turchia, Iran (sostengono l’azione di Hamas). Dei cinque Paesi BRICS quattro - escluso il Brasile - fanno parte di questo insieme.

Notiamo anche che spesso i rispettivi “schieramenti” - ora acquista senso parlarne - si riproducono in altri scenari, come quello della guerra in Ucraina. La loro impronta economica e geopolitica è lapalissiana: un mondo così non si vedeva dalla caduta del Muro di Berlino.

Appurate tali polarizzazioni, torneremo a parlarne in seguito. Appare chiaro il motivo per cui sostenere Israele, al di là delle barbarie perpetrate dagli uomini di Hamas, impegnati in quella che per loro è un’opera di pulizia etnica, l’unico caso in cui si uccidono deliberatamente dei bambini (Nazifascismo e Ruanda solo alcuni esempi). E’ una scelta di civiltà, è una scelta di quale mondo abitare: uno democratico e libero (o che tenta di esserlo), con tutti i difetti possibili, oppure uno opprimente, legato all’uomo forte al comando, dai retaggi vecchi e sorpassati dalla civiltà che progredisce, che si lega all’inesorabile scorrere del tempo.

I pericoli delle polarizzazioni

Poc’anzi dicevo che un mondo così non lo si vedeva da prima della caduta del Muro di Berlino. Quel mondo - della guerra fredda - era diviso in due: da un lato gli occidentali, “capeggiati” dagli Stati Uniti, la cui potenza militare ed economica era di fatto la prima nel mondo e, al netto di processi di democratizzazione forzata e golpe sostenuti per garantirsi il controllo di talune aree a discapito “dell’altro lato”, è sempre stato quello libero e in qualche modo progressista; dall’altro le forze comuniste, che di libero, democratico e progressista non aveva assolutamente niente. Un mondo comunque polarizzato, diviso in due.

Il rischio della guerra fredda, dal tramonto della seconda guerra mondiale alla caduta del Muro, era di un’escalation improvvisa di un altro, ravvicinato conflitto su vasta scala e, soprattutto, che questo potesse prevedere l’uso di armi nucleari. Adesso il rischio è simile - secondo me non quello dell’uso di armi nucleari - ma viviamo in un mondo profondamente mutato negli ultimi trent’anni. La società di oggi è estremamente globalizzata e digitalizzata, con due grandi fenomeni che potrebbero giocare (lo stanno già facendo) un ruolo fondamentale nelle relazioni tra i vari Paesi. 
In primis vediamo migrazioni di massa totalmente fuori controllo, o perlomeno di quello dell’Europa, che sommate alla radicalizzazione - naturalmente portata dalle polarizzazioni - aumentano il rischio di un allargamento parcellizzato del conflitto attraverso singoli attentati terroristici. La sospensione del Trattato di Schengen per alcuni Paesi ne è l’evidente riprova.

In secondo luogo, la digitalizzazione ha portato a quella che è la definitiva vittoria del sistema capitalista, un punto di non ritorno: la commercializzazione dei dati personali degli utenti - quindi di tutti noi - per fini politici, economici, sociali. Di esempi ne vediamo a bizzeffe, in primis la Brexit, influenzata in quello che è diventato il caso Cambridge Analytica. Ed è così che vediamo sempre più piattaforme (tra cui TikTok, Temu, ChatGpt) accusate di furto di dati, in quella che sembra una vera e propria guerra informatica tra Stati Uniti e Cina (ricordate le polarizzazioni?), ma anche gruppi di hacker che bloccano siti governativi per rivendicazioni politiche. Piccola riflessione: non comprendo in che modo la commercializzazione dei dati degli utenti non possa essere considerata la stortura definitiva - e quindi, visto che è anche la vittoria assoluta, il fallimento totale - del sistema capitalista, un sistema che dall’essere liberista è finito con l’essere liberticida.

Conclusioni

Come abbiamo visto, lo scenario globale ad oggi è estremamente complesso, con nuove polarizzazioni all’orizzonte e un rischio concreto di allargamento su vasta scala dei conflitti esistenti. Per questo una visione globale da parte dei media è importante: la visione locale dei conflitti e delle questioni dirimenti non va a far luce chiaramente sulla situazione nel mondo, con i dovuti rischi di sottovalutare i molteplici pericoli all’orizzonte.
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