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Femminismo e socialismo: dialoghi di emancipazione

14/12/2023

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Maria Anna Lerario

Fondazione Nenni


​“Tutti parlano delle femministe e del femminismo. Però nessuno sa bene chi sono e di cosa si tratta. Sa solo che le femministe bruciano i reggiseni.” 
Sono parole, queste, pubblicate in un articolo del 21 febbraio 1975, sulla rivista “Rinascita”. Un periodo in cui il movimento femminista italiano stava vivendo un momento di grande vigore e determinazione. Eppure, in molti, continuavano a essere cechi e sordi o, nel migliore dei casi, spettatori. Testimoni indiretti. 
A distanza di quasi cinquant’anni, possiamo dire, con coscienza e consapevolezza, di sapere chi sono le femministe e cos’è il femminismo? Probabilmente, ancora no. 
 
Eppure, quei diritti di cui godiamo e che diamo per acquisiti, pur essendo sempre e continuamente sotto attacco (pensiamo ai temi dell’aborto, della famiglia o del gender pay gap), sono il frutto di un percorso di emancipazione delle donne, plasmato nei decenni da un intricato intreccio di lotte sociali, economiche e politiche che hanno visto le donne combattere in prima linea. Tuttavia, senza mai riuscire a rompere definitivamente lo scudo del patriarcato, radicato profondamente nella nostra cultura, e a determinare nuovi e più moderni equilibri di genere. 
La questione relativa alla condizione femminile costituisce, ancora oggi, uno dei temi storici più dibattuti, soprattutto in relazione alla risposta del “mondo maschile” alle istanze delle donne e alla loro emancipazione. 
Si tratta di un argomento complesso che può essere esaminato da diverse prospettive, coinvolgendo discipline quali l’antropologia, la storia, il diritto. 
Il ruolo della donna nella società, la sua situazione lavorativa e la sua funzione all’interno delle dinamiche familiari emergono come tematiche che prendono forma e si consolidano verso la fine del XIX secolo.
Quella che noi comunemente chiamiamo “questione femminile” ha iniziato a delinearsi nei primi decenni dell’Ottocento, quando, con la rivoluzione industriale, si apre la strada a profonde trasformazioni della società: il mercato del lavoro subisce una trasformazione epocale, coinvolgendo sempre più donne e bambini, oltre agli uomini. È il momento, questo, in cui l’essere donna inizia ad assumere un significato ontologico diverso. Ed è in questo momento che inizia il cammino dell’emancipazione. 
L’immagine dell’angelo del focolare viene sempre più sfocata dagli spazi sociali ed economici che le donne iniziano, anche inconsapevolmente, ad occupare. 
È il lavoro il volàno del cambiamento di prospettiva nell’identità sociale, economica e politica della donna. Ed è proprio dal delicato e ancora irrisolto rapporto tra donne e lavoro che trovano spazio le prime rivendicazioni femministe, non solo nella concretezza delle battaglie portate avanti dalla socialista Anna Kuliscioff, ma anche nelle lotte più ideologiche sulle quali si focalizzava ardentemente Anna Maria Mozzoni. Due donne che hanno fatto la storia del movimento femminista italiano. 
Per le donne il lavoro fuori casa, aggiunto alle tradizionali responsabilità domestiche, non rappresenta subito un progresso, ma piuttosto una necessità imposta dai bassi salari insufficienti a coprire le esigenze familiari. 
Il lavoro femminile nelle fabbriche inizia come una mera estensione degli obblighi domestici e non libera la donna dai ruoli tradizionalmente assegnati. 
Tuttavia, nonostante i salari bassi e la grande fatica, il lavoro in fabbrica ha offerto alle donne lavoratrici l’opportunità di uscire dagli stereotipi tradizionali e di entrare in contatto con il mondo esterno. Le esperienze collettive e la partecipazione alle prime agitazioni operaie hanno contribuito a sviluppare la consapevolezza della propria condizione. 
Le donne, inizialmente confinate a ruoli tradizionali e ora costrette al lavoro nei campi o in fabbrica, hanno iniziato a ribellarsi a questa limitazione, trovando nel movimento socialista una piattaforma ideologica che sposava la causa dell’uguaglianza di genere con quella della giustizia sociale ed economica. Contadine, tessili, mondariso danno vita a manifestazioni di protesta e, per ottenere migliori condizioni di lavoro, si costituiscono delle vere e proprie leghe femminili. 
Si sentiva, forte, già all’epoca, l’esigenza di una rappresentanza politica femminile, incisiva e caparbia.  
Al centro di questo percorso, il movimento socialista italiano svolge un ruolo cruciale nel promuovere una visione dell’emancipazione femminile che voleva addirittura superare la semplice parità di genere. 

Già nel 1892, mentre a Genova nasceva il partito socialista, i dibattiti attorno ai temi femministi assumevano le fattezze di un’intensa e fervida attività: sono gli anni in cui si sviluppa un intenso tessuto di riviste e associazioni femminili “che – come ricorda Marta Ajò nel libro La donna nel socialismo italiano - partendo dalla condizione della donna si pongono il problema di una trasformazione complessiva della società.” 
Il Movimento femminile socialista italiano nasce a Milano nel 1897 diretto da Anna Kuliscioff, Linda Malnati, Carlotta Clerici e Giuditta Brambilla e si lancia subito in una serie di inchieste sul lavoro della donna e dei bambini nell’industria. Inchieste che forniranno la base per la proposta di una legge su lavoro delle donne che mira a raggiungere un’uguaglianza economica, politica e giuridica. 
Come detto, i temi del lavoro sono la base su cui si fonda l’emersione di un movimento tutto nuovo e al femminile. In quegli anni, è Argentina Altobelli a dirigere la federazione dei lavoratori della terra e grande è stato il suo impegno nell’esaltare il fenomeno delle organizzazioni femminili che, oltre a lottare per la tutela del lavoro, con retribuzioni più eque e condizioni di lavoro dignitose, confermano come la donna abbia diritto a un suo pensiero autonomo, svincolato dal filone di pensiero unico maschile. Una strada difficile da percorrere ma che ha l’obiettivo sostanziale di liberare la donna dalla sottomissione e aprire le porte per l’istruzione, la formazione, la presenza attiva nella società, nell’economia e nella politica.
I partiti di sinistra, comunista e socialista, pur guidati e partecipati da una quasi totale maggioranza di uomini, accolgono le istanze femministe, battendosi per il raggiungimento di un obiettivo fondamentale per la democrazia: il suffragio universale. 
Le questioni riguardanti l’inferiorità economica, politica e giuridica delle donne rimangono, con poche eccezioni, estranee al pensiero liberale. In tutto il mondo c’è fermento: nel luglio del 1848, a Seneca Falls, New York, si tenne un’assemblea di circa trecento donne, durante la quale l’attivista Elizabeth Cady Stanton formula una primitiva dichiarazione dei diritti delle donne, affermando la piena uguaglianza sociale e giuridica tra uomini e donne.
Nel pensiero liberale dell’Ottocento, spiccano due saggi significativi scritti rispettivamente da Harriet Taylor e John Stuart Mill sull’emancipazione femminile, giungendo alla conclusione che il pieno riconoscimento della donna passa attraverso l’affermazione dei medesimi diritti degli uomini. In molti Paesi europei, le donne erano escluse dal diritto di voto, dall’accesso all’istruzione universitaria, dalle professioni e dal controllo autonomo dei loro beni.
Nel 1897, in Inghilterra, Millicent Garrett Fawcett fonda la National Union of Women’s Suffrage, impegnata nel garantire il diritto di voto alle donne. Dopo il fallimento di questa iniziativa, nel 1903, Emmeline Pankhurst crea la Women’s Social and Political Union, che utilizza mezzi più energici, come manifestazioni di massa, marce sul parlamento e scioperi della fame, per ottenere il riconoscimento del suffragio universale. Nel 1918, il Parlamento britannico vota il Representation of the People Act, concedendo il diritto di voto alle donne benestanti oltre i trent’anni. Nel 1928, le donne inglesi ottengono il diritto di voto universale, seguito da altri Paesi nel corso dei decenni successivi.
In Italia il dibattito sul suffragio universale nei movimenti e nel partito socialista è acceso e partecipato, anche se non immediatamente condiviso: il partito socialista si fa portatore delle istanze della mutata realtà femminile e si impegna perché il diritto di voto sia esteso anche alle donne. 
Come sappiamo la strada sarà ancora lunga: le donne, in Italia, potranno votare solo nel 1946.  
L’avvento del fascismo blocca l’avanzare del movimento, l’estensione dei diritti e soprattutto il cambiamento culturale: la donna torna a essere l’angelo del focolare, esaltata solo nel suo ruolo di procreatrice e “amministratrice” delle faccende domestiche. La cultura di massa si appiattisce sull’ideologia del patriarcato, ma, di lì a poco, la partecipazione attiva delle donne alla resistenza dimostrerà come il fuoco appassionato del femminismo non si è spento. La democrazia non è un fatto di genere. 
Dopo la Seconda guerra mondiale, le donne tornano a sventolare le bandiere dell’emancipazione, sviluppando la necessità di un cambiamento sostanziale nella loro condizione, in chiave più matura rispetto al passato. Oltre alle questioni legate al lavoro in tutte le sue sfaccettature, si manifestano con crescente rilevanza temi come l’elevazione culturale, la famiglia e lo sviluppo della persona umana, rappresentando un’esplosiva sintesi di rivendicazioni correlate al pensiero di Kuliscioff e Mozzoni.

Il fermento è tale che in pochi anni, le risolute lotte portate avanti dalle femministe, con il supporto di comunisti e socialisti, raggiungono i primi grandi traguardi: dall’introduzione di leggi contro la discriminazione sessuale, al riconoscimento del diritto all’aborto, al divorzio e all’affermazione dell’uguaglianza di genere. 

L’evoluzione della condizione femminile è un processo complesso che coinvolge cambiamenti culturali, sociali, economici e giuridici. L’emancipazione delle donne è intrinsecamente legata a una trasformazione più ampia delle strutture sociali e delle percezioni culturali. 

È in questo che il socialismo italiano è stato un luogo, forse l’unico, nonostante pur numerose criticità e scetticismi, ad accogliere il desiderio e il bisogno di lotta femminile, adottando una prospettiva critica nei confronti del patriarcato, riconoscendo che la lotta per l’emancipazione delle donne deve estendersi oltre la sfera politica e abbracciare una critica sistematica delle disuguaglianze economiche. Le donne socialiste hanno richiesto con forza, lottando anche contro la burocrazia organizzativa dei partiti, non solo la parità formale, ma anche un impegno reale per una ridistribuzione delle risorse che eliminasse le disparità economiche tra i generi.

Il movimento socialista, insomma, ha fornito un terreno fertile per la riflessione critica e la ricerca di soluzioni in grado di affrontare le radici profonde della disuguaglianza di genere. 
La costruzione di una società giusta deve passare attraverso il coinvolgimento attivo di entrambi i sessi nella creazione delle leggi e delle politiche. Un semplice costrutto, questo, ma ancora oggi di difficile estensione, come dimostrano le continue vessazioni nei confronti delle donne, fino alla violenza e ai femminicidi. 
Le donne continuano a lottare per una completa emancipazione che è ben lungi dall’essere realmente raggiunta, non solo a livello legislativo, ma soprattutto culturale. Nonostante battaglie e sforzi, resta tuttora una diffidenza profonda nei confronti delle donne: sfide come la disparità salariale, la scarsa rappresentanza femminile nelle posizioni di potere e la persistente cultura patriarcale dimostrano che la strada è davvero ancora molto lunga.  
È per questo che i valori del socialismo italiano restano una guida ideologica nella costruzione di una società in cui esprimere appieno la propria individualità e godere dei propri diritti senza compromessi di genere.
 
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