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La diffusione dell’odio online nella società della comunicazione

18/6/2022

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giulia cavallari

Giovane Avanti! Bologna

“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli. Prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli” così si era espresso il semiologo Umberto Eco.
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Una affermazione certamente provocatoria, ma che riflette appieno la triste realtà che siamo chiamati a vedere, ma anche ad analizzare. Parole cariche di odio e rabbia che vengono riversate sui social e che portano ad individuare un fenomeno che, soprattutto negli ultimi anni, è diventato quotidianità. 
Nel 1997, quindi sono trascorsi già diversi anni, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nella Raccomandazione n. 20 aveva indicato una definizione di hate speech “inteso come l’insieme di tutte le forme di espressione che si diffondono, incitano, sviluppano o giustificano l’odio razziale la xenofobia, l’antisemitismo e altre forme di odio basate sull’intolleranza e che comprendono l’intolleranza espressa attraverso un aggressivo nazionalismo ed etnocentrismo, la discriminazione, l’ostilità contro le minoranze, i migranti e i popoli che traggono origine dai flussi migratori”.

Una definizione fornita quando non esistevano ancora i social e Internet si stava diffondendo, ma che a distanza di anni, possiamo dire che suona ancora attuale. 
Quando parliamo di odio online, di hate speech indichiamo quelle espressioni che veicolano un linguaggio violento e che veicolano forme di discriminazione, ma i suoi confini sono molto labili, quelle espressioni che veicolano insulti, offese e/o manifestazioni dannose nei confronti di quei soggetti che si trovano ad essere vittime indifese nel grande “oceano” dei social e della rete che account fake sono stati in grado di costruire con grande abilità.

L’hate speech è un fenomeno fortemente insidioso perché anche sotto il profilo giuridico è “complicato” definirlo appieno, ma anche sotto quello della regolamentazione perché bisogna fare attenzione a non “cadere” nella repressione di un diritto costituzionalmente garantito. Nel nostro ordinamento si fa riferimento al reato di diffamazione previsto dal codice penale quando il messaggio di odio viene veicolato attraverso i social network con riferimento anche all’aggravante perché quel tipo di messaggio ha una “cassa di risonanza” quasi senza alcun confine. 

L’obiettivo di chi veicola messaggi di odio e violenza verbale è ferire, arrecare un danno alla vittima o alle vittime causando effetti anche profondi sulla personalità del soggetto (si pensi ai casi di cyberbullismo), ma è possibile che la denigrazione, che viene messa in atto con i messaggi di odio, sia rivolta ad un numero più ampio di soggetti, ma la finalità è sempre quella di insultare, denigrare, offendere, intimidire.

Nel 2016 è stato firmato dalla Commissione Europea e dalle maggiori piattaforme di social media (Facebook, Twitter, YouTube, Microsfot) un Codice di Condotta per contrastare l’hate speech online in base al quale le aziende informatiche assumono l’impegno di introdurre e prevedere delle procedure ad hoc per prendere in esame le segnalazioni di contenuti che incitano all’odio per procedere poi alla loro rimozione. Ma sappiamo bene che questo è un “lavoro” complicato anche perché quotidianamente - se guardiamo al caso italiano - sono migliaia i casi di hate speech e odio online.

Con questo Codice di Condotta i sottoscrittori si sono impegnati a rafforzare il sistema del c.d. “notice and take down” in base al quale il contenuto che veicola un messaggio di odio dovrebbe essere rimosso e/o reso inaccessibile entro le 24h dalla segnalazione, ma sappiamo- purtroppo- che molte volte non è così, che quei messaggi restano in rete e vengono anche rilanciati.

Già nel 2019, quindi appena pochi anni fa, è emerso come l’Italia avesse già un “problema” rispetto ad altri stati membri dell’Unione in termini di discriminazione online, di uso di un linguaggio caratterizzato da toni forti e da un linguaggio scurrile e anche da parte di alcune forze politiche l’uso di determinati toni è fortemente significativo per orientare parte dell’elettorato. 

Nel 2019 l’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) ha emesso una delibera la n. 157 “Regolamento recante disposizioni in materia di rispetto della dignità umana e del principio di non discriminazione e di contrasto all’hate speech”. Si è trattato sicuramente, nel panorama nazionale, di un intervento di non poco conto-seppur rivolto principalmente al mondo della radiotelevisione- perché volto a disciplinare un ambito molto delicato oltre che fondamentale quale è il diritto e la libertà di espressione e parola.

L’hate speech, insieme a quelle che sono comunemente denominate fake news, rappresenta, certamente non solo in Italia, oggetto di un dibattito che comprende la delicata sfera della libertà di espressione e la cui attenzione è divenuta sempre più alta- anche a livello comunitario e internazionale- perché si è cercato (nonostante la strada da percorrere sia ancora lunga) di introdurre delle regole sul piano giuridico che sono da una parte non ancora propriamente vincolanti, ma che rappresentano una base dalla quale partire.

Inoltre, è stato rilevato come una bassa qualità dell’informazione porti ad un aumento della discriminazione ed è fondamentale evidenziare quanto sia importante che l’informazione sia corretta e le notizie affidabili perché una scarsa affidabilità delle stesse porta ad un incremento della percentuale di diffusione dell’hate speech e fake news e in particolar modo, nel nostro Paese, è emerso un dato- fortemente negativo- in cui parte della popolazione nutre una forte diffidenza nei confronti dell’informazione (quella che potremmo definire “ufficiale”).
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Oggi i social media hanno radicalmente cambiato e trasformato il modo di concepire l’uso della rete andando però a creare, a causa di un uso non propriamente corretto, una condizione in cui si è messo- e si continuano a mettere- a rischio alcuni dei principi fondamentali dell’ordinamento e del vivere in comunità. 
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E’ vero che i social network hanno un ruolo di interconnessione tra i cittadini-utenti, ma la realtà che stiamo vivendo denominata anche “età dei social network” ci fa capire che siamo di fronte ad un fenomeno imponente che non può più essere sottovalutato, bisogna parlarne perché qui entra “in campo” un’altra questione legata al diritto fondamentale costituzionalmente garantito quale è il diritto di parola e la libertà di espressione. 

Infatti questo incremento dei fenomeni di hate speech rappresenta un problema sia per il singolo che per la comunità perché “inquina” il dibattito sano che una democrazia deve avere.

Ma ciò che più fa scalpore è il fatto che i discorsi di odio o discorsi in cui viene usato un linguaggio piuttosto forte nel contenuto provengano o siano rilanciati da chi occupa posizioni di primo piano anche a livello politico e accresce il rischio che questa tipologia di discorso “dilaghi” e si diffonda, diventando poi difficile poterla arginare.

È fondamentale che chi occupa posizioni di primo piano, soprattutto quelle politiche, comprenda che i discorsi di odio devono essere contrastati con tutti i mezzi possibili, ma anche con azioni politiche e, soprattutto, legislative.

In Italia, da qualche anno a questa parte, assistiamo ad un fenomeno, che potremmo definire “odio interpersonale” che ha assunto contorni alquanto gravi poiché chiunque, mentre naviga sui social, scorrendo pagine e post, si arroga il “diritto” di poter insultare se legge o commenta un post di qualcuno che ha espresso una idea e/o un’opinione che è distante dalla sua o commenta notizie che non rispecchiano il suo schieramento politico. 

“L’odio interpersonale” (e la sua diffusione) è radicalmente mutato e trasformato con la diffusione delle nuove tecnologie. Basti pensare agli attacchi social da parte di gruppi di persone (più o meno reali) che si “coalizzano”, anche senza conoscersi personalmente, per creare una vera e propria “shitstorm” contro un soggetto.

Servirebbe una vera e propria azione di formazione soprattutto per le nuove generazione, senza però dimenticare anche quella fascia di popolazione, non più giovanissima, che rappresenta una percentuale ampia degli utilizzatori quotidiani dei diversi social ed è quello che manca in Italia: l’educazione al digitale.
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