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Alessandro Picarone Giovane Avanti! Napoli Nel terzo millennio la contrapposizione tra ricchezza e povertà ha toccato le corde di gran parte di noi: senza dubbio, la cosiddetta terza rivoluzione industriale ha contribuito a uno sviluppo economico particolarmente accentuato, ma ha anche favorito la concentrazione di ricchezze nelle mani di un numero sempre minore di persone, aumentando così le diseguaglianze sociali ed economiche.
La povertà è un fattore multidimensionale, tiene cioè conto di opportunità culturali, scolastiche e formative, di relazioni sociali, tutte correlate tra di loro: secondo il rapporto di Save The Children “Nuotare contro corrente - Povertà educativa e resilienza in Italia” (p.5) il 12,5% dei minori (fonte ISTAT 2016) “vivono in condizioni di povertà assoluta. I bambini delle famiglie più povere hanno, rispetto ai loro coetanei, una maggiore probabilità di fallimento scolastico, rischiano in misura maggiore di lasciare precocemente la scuola e di non raggiungere livelli minimi di apprendimento”. Inoltre, la mobilità sociale è decisamente statica, cioè c’è una minima possibilità di miglioramento da una generazione all’altra: la simulazione presente nel report “A Broken Social Elevator? How to Promote Social Mobility” indica che in Italia, a una persona che viene da una famiglia povera (ultimo decile di reddito) sono necessarie mediamente 5 generazioni (4,5 la media OCSE, 2 in Danimarca e 7 in Ungheria) per raggiungere il reddito medio. Le difficoltà si manifestano ancora più prepotentemente in Africa: anche lì a risentirne sono i bambini, la cui condizione è ancora più tragica che in Europa. Solo per un singolo, tremendo, esempio va ricordato come decine di migliaia di minori lasciano la scuola, senza completare nemmeno il ciclo di studi obbligatorio, per essere impiegati nella estrazione artigianale e di piccola scala del cobalto nella Repubblica Democratica del Congo. Poste queste premesse, la più logica conseguenza sarebbe portare alla globalizzazione dei diritti, una sorta di internazionalismo dei diritti: d’altronde, finché esisteranno zone franche da ogni tutela fondamentale, nelle quali si lavora in condizioni di sfruttamento e di povertà, non è possibile ipotizzare la presenza di tutele condivise. È per questo che, negli ultimi anni, sta emergendo il tema della Corporate Social Responsability: preso atto del fatto che l’approccio volontario non si è rivelato sufficiente, anche per conferire una legislazione unica e non frammentaria in materia di due diligence, da qualche mese, se ne sta occupando anche la Commissione Europea, ma la direttiva non è stata ancora approvata, al momento in cui si scrive, e anzi, sfumato recentemente il voto, le trattative proseguono. L’obiettivo dichiarato della direttiva è, in origine, quello di promuovere un’economia globale equa e sostenibile, mirando a escludere, ad esempio, il lavoro minorile, il lavoro forzato, la protezione della salute al di sotto degli standard, la retribuzione inadeguata, le violazioni della legge o i danni ambientali evitabili nella creazione di valore delle aziende europee. Difatti, il problema non è solo la povertà, ma anche lo sfruttamento dei lavoratori e il degrado ambientale (si pensi ai rare-earth elements), che restano gli anelli deboli delle catene di approvvigionamento delle imprese europee. Per delimitare l’ambito di applicazione della direttiva (almeno nelle proposte finora conosciute), si deve fare riferimento a due fattori su tutti: il fatturato (a seconda se la società abbia sede in UE o sia al di fuori o, per queste ultime, se almeno il 50% del fatturato netto mondiale è stato generato nei settori ad alto rischio) e i dipendenti (500 per le società con sede in UE, 250 per quelle definite ad alto impatto, cioè: industria tessile, mineraria e agricola). Le PMI non sembrano essere, per ora, direttamente coinvolte nel campo di applicazione della proposta, tuttavia potrebbero essere indirettamente interessate dalle nuove regole come risultato dell’effetto delle azioni delle grandi imprese attraverso le loro catene di fornitura. Le aziende avrebbero dovuto, poi, sviluppare un piano strategico d’azione di prevenzione e verificare la conformità delle misure adottate con i partner commerciali, dovendo astenersi dall’intraprendere nuovi affari con eventuali partner cosiddetti problematici (sospendendo o terminando la collaborazione commerciale a seconda della gravità dell’impatto negativo). In realtà, la due diligence, per essere efficace, dovrebbe essere integrata nelle politiche e nei sistemi di gestione aziendali, con modalità di segnalazione dei reclami, cui tutti lungo la filiera possono accedervi, e l’adempimento agli obblighi dovrebbe essere monitorato e comunicato in modo trasparente. Il condizionale è d’obbligo, perché tutto è ancora da definire meglio, stante una nuova fase di trattative a causa dei diffusi malumori nel mondo delle industrie: in Germania, a opporsi è il partito tedesco FDP, maggiormente favorevole alle imprese (a Berlino, in realtà è in gioco anche l’equilibrio politico nella coalizione di governo tra verdi, socialisti e liberali, resta da vedere se avrà conseguenze sulla tenuta del governo). Anche le grandi associazioni industriali europee (come in Italia Confindustria) si sono messe di traverso e schierate duramente contro il testo: le contestazioni sono tutte riconducibili a timori per gli svantaggi competitivi dovuti dall’eccessiva regolamentazione e dagli oneri ritenuti troppo pervasivi che incideranno, negativamente, sulle imprese che hanno già patito a causa della pandemia. In realtà, giova ricordare che in Italia la pandemia ha peggiorato la già grave situazione di povertà delle persone: secondo l’elaborazione “Con i Bambini su dati Istat”, il 13,4% di under 18, nel 2022, vivono in povertà assoluta (nel mezzogiorno l’incidenza sale al 15,9%). In ogni caso, la presidenza belga del Consiglio dell’Ue, dopo aver accertato che l’Italia si sarebbe astenuta, così accodandosi alla Germania – oltre ad altri Paesi come Austria e Finlandia – ha preferito non procedere al voto, mancando la maggioranza qualificata per approvare il provvedimento, e rinviarlo a data da destinarsi, prendendosi il tempo di tentare un’ulteriore opera di convincimento. Resta da vedere cosa succederà, ma urge un’inversione di rotta sia sotto il profilo della povertà sia sotto il profilo della transizione ecologica.
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