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Giulia CavallariGiovane Avanti! Bologna Il 2022 è l’anno in cui in Italia è stato raggiunto un altro record negativo in termini di nuove nascite. Per la prima volta il numero è sceso sotto i 400.000 nuovi nati (-1,9%, - 392.598 nascite). Perché in Italia si fanno pochi figli? Perché è così difficile? Ancora una volta Save The Children con il suo rapporto annuale ha fotografato un Paese in cui le madri vengono definite “equilibriste” proprio perché spesso da sole, o con pochissimo aiuto, si occupano della famiglia, lavorano, si prendono cura della casa, fanno ‘quadrare i conti’. Cinque ore e 5 minuti è il tempo dedicato dalle donne in Italia al lavoro di cura, quello non retribuito, contro un’ora e 48 minuti di quello degli uomini. I dati sono chiari, se le donne lavorano, possono avere servizi di welfare funzionanti, nascono anche più bambini. Anche in questo ultimo rapporto è emerso il dato, già tristemente famoso, relativo all’occupazione delle donne nel Sud Italia. Un dato a conferma di un trend sempre negativo.
L’occupazione femminile nel Mezzogiorno è tra le più basse in Europa perché quasi il 24% è il divario tra occupazione femminile e maschile, mentre al Nord questo divario si attesta al 13,6%. Molto dipende anche dal livello di istruzione perché i dati dimostrano che tra le donne che hanno conseguito una laurea almeno il 70% ha una occupazione a differenze delle donne che hanno conseguito solo la licenza media dove la percentuale è inferiore di 40 punti perché solo il 30,5% ha una occupazione (“Le analisi mostrano anche come nel nostro Paese le madri con un titolo di studio inferiore hanno maggiore probabilità di lasciare il mercato del lavoro all’arrivo di un figlio, mentre chi è maggiormente istruita rimane occupata pur vedendo la sua carriera rallentata.) Come spesso accade in Italia dobbiamo anche evidenziare che i giovani laureati (donne e uomini) esiste un divario di genere perché l’86,7% delle donne ha una occupazione a cinque anni dal conseguimento del titolo, contro il 90,9% degli uomini. Anche a livello di contrattualistica a tempo indeterminato il divario donne-uomini è da prendere in considerazione: almeno il 60,1% degli uomini contro il 52,6% delle donne. Come avevamo già avuto modo di evidenziare in altri articoli, le differenze di genere sono evidenti anche a livello retributivo ( il c.d. gender pay gap). Sempre il Report di Save the Children ha rilevato che “tra i laureati di secondo livello che lavorano a tempo pieno emerge che il differenziale, a cinque anni, è pari al 12,9% a favore degli uomini: 1.799 euro netti mensili rispetto ai 1.593 euro delle donne”. L’Istat ha rilevato che in Italia “avere figli è particolarmente penalizzante per la partecipazione al mondo della lavoro perle donne con un titolo di istruzione inferiore. Anche nel 2022 è evidente la disparità nell’occupazione per genere e a seconda della presenza o meno di almeno un figlio (minore) nel nucleo familiare”. Eppure abbiamo visto agli Stati generali della natalità una ‘processione’ di interventi sulla necessità di fare figli in Italia. I dati parlano e restituiscono una fotografia alquanto inquietante dove il divario ancora una volta è tra donne e uomini e anche tra Nord e Sud del Paese: “Per gli uomini di età compresa tra i 25 e i 54 anni il tasso di occupazione totale è dell’82,7%, e varia dal 76,1% dei senza figli, crescendo a 90,4% per chi ha un figlio minore, e al 90,8% per chi ne ha due. Per le donne la dinamica è inversa: il tasso di occupazione totale è più basso, 62%, con il picco massimo (67%) tra le donne senza figli, e il picco minimo 56,1% tra quelle con due figli minori. Nel mezzo le donne con un figlio minore al 63%[…] al Mezzogiorno, ad esempio, si vede che il divario nella partecipazione si manifesta diversamente (Fig. 3): gli uomini senza figli hanno un tasso di occupazione del 60,1%, quelli con figli minori dell’81,2%. Per quanto riguarda le donne, l’occupazione si ferma al 46,4% per chi è senza figli e cala al 39,7% in caso di presenza di figli minori (38,1% è la partecipazione minima che si riscontra per le donne con due o più figli minori”. Sono dati e numeri forniti da importanti enti che studiano questi fenomeni e anche in questo caso l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha pubblicato la sua relazione annuale “sulle convalide delle dimissioni delle lavoratrici e lavoratori padri”. I numeri parlano: “Dopo una flessione riscontrata durante il 2020, anno pandemico, le dimissioni volontarie ritornano ad aumentare: le convalide complessivamente adottate su tutto il territorio nazionale sono state 52.436. Di queste, 37.662 convalide (il 71,8%) si riferiscono a donne e 14.774 (28,2%) a uomini. Il netto squilibrio di genere che caratterizza da dieci anni le dimissioni volontarie post nascita è confermato, anche se è andato notevolmente a ridursi nel tempo: le dimissioni delle madri erano il 97,1% nel 2011". Una riduzione dovuta non alla diminuzione delle dimissioni delle madri perché quelle, purtroppo, sono aumentate, ma nel 2021 sono aumentate anche tra gli uomini. Una parte della politica, quella che attualmente ha la maggioranza e si trova al Governo continua a parlare della necessità di tornare a fare figli in Italia. Quella parte politica che ha ‘sfilato’ agli Stati generali della natalità “per provare a fare proposte concrete per invertire il trend demografico e immaginare una nuova narrazione della natalità”. Quando si sentono, purtroppo ormai quotidianamente, queste dichiarazioni sorge spontanea la domanda: questi rapporti vengono letti dagli esponenti di governo? Se si (come auspichiamo), perché continuare con questa retorica del dover fare figli a tutti i costi quando mancano i servizi welfare, quando le donne ricevono una retribuzione inferiore a quella dei colleghi uomini, quando la percentuale di donne che ha contratti a termine ( e quindi meno garanzie) è superiore a quella degli uomini, quando sono costrette a lasciare il lavoro per esigenze di cura della famiglia, quando manca il congedo parentale (solo 10 giorni in Italia dopo lunghe lotte in Parlamento)? E’ in queste situazioni che si dovrebbe vedere lo Stato con i suoi servizi di welfare e con le politiche attive del lavoro. Assistiamo, invece, a pura propaganda. Da decenni non ci si preoccupa di questi problemi anzi si continua a tagliare, a ‘limare’ quella spesa che per lo Stato dovrebbe essere spesa attiva per favorire politiche che consentano all’Italia di riavvicinarsi ai paesi civili. Perché finché uno Stato con le sue istituzioni non deciderà da che parte stare (quella dei cittadini) resteremo sempre il fanalino di coda tra i Paesi europei. E poi? E poi sentiamo grandi parole sulle ‘culle vuote’, sui dati negativi in termini di nuove nascite, parterre di soli uomini che cercano di spiegare perché, ma in tutto questo gran valzer c’è una certezza: il lungo inverno demografico che l’Italia sta vivendo non si argina con continue parole, ma con azioni di governo e azioni istituzionali a favore della metà della popolazione: le donne. Il Governo parla di natalità, della necessità di ‘tornare a riempire le culle’, ma nei fatti stanno raggiungendo un fallimento (non un obiettivo come invece dovrebbe essere): nel PNRR 4,6 miliardi di euro sono stati destinati all’aumento dei posti negli asili nido. Il Governo rischia di perderli. Qualora ciò dovesse avvenire sarebbe un gravissimo smacco per le donne, per le famiglie, per le nuove generazioni, per l’Italia tutta. Il Ministro Fitto, in Parlamento, ha espressamente evidenziato che su questo punto del PNRR sono in ritardo. In questi casi non serve la propaganda a cui ci hanno, purtroppo, abituati, ma serve la capacità e la competenza di compiere azioni politiche a favore dei cittadini e in particolar modo delle donne.
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