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L'orgoglio nel momento sbagliato

23/1/2023

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Riccardo Imperiosi

Direttore Giovane Avanti!

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Pochi giorni fa ha fatto clamore la notizia di una famiglia finlandese che, dopo solo due mesi di residenza a Siracusa, ha preso la decisione di scappare dal nostro Paese. Il motivo? Il livello basso della scuola italiana. 

Ora, che la popolazione si senta ferita nell’orgoglio - soprattutto visto il polverone che ha alzato questo caso - è più che normale. Che però lo siano le istituzioni e altri commentatori molto più affidabili non lo è più di tanto: il sistema scolastico italiano, dati alla mano, non è efficiente. 
Ogni anno in Italia quasi il 13% degli studenti abbandona precocemente gli studi contro una media europea che non arriva al 10%, il che pone il nostro Paese agli ultimi posti di questa speciale classifica. Anche per il numero di laureati (circa il 28% dei 25-34 enni) l’Italia è quasi il fanalino di coda: solo la Romania fa peggio di noi e la media europea, circa il 41%, è decisamente lontana. Stesso discorso per il dato che viene definito come il principale indicatore del livello di istruzione di un Paese, ovvero il diploma, considerato il livello di formazione indispensabile per una partecipazione al mercato del lavoro con potenziale di crescita individuale: in Italia, nel 2020, tale quota era pari al 62,9% della popolazione, numero decisamente inferiore alla media europea del 79%. 

Ma l’inefficienza non si vede solo attraverso questi dati, che comunque sono indicatori importanti dello stato di salute del sistema educativo in un Paese. Pensiamo al fenomeno dei cervelli in fuga: ogni anno migliaia di laureati sono costretti ad emigrare perché il Belpaese non riesce ad investire su di loro, sulla ricerca, sull’università. Ne abbiamo parlato il mese scorso e in parte la riflessione è la stessa: per quale motivo uno studente o una studentessa italiani dovrebbero essere spronati nello studio se la meritocrazia legata all’istruzione - che dovrebbe essere sempre il motore dell’ascensore sociale - è totalmente assente? Per quale motivo una persona dovrebbe accrescere le proprie competenze se queste, nella maggioranza dei casi, le si riveleranno inutili? È una situazione pericolosa, molto, perché può significare il distacco definitivo tra l’istruzione e il mondo del lavoro - non che viaggino assieme attualmente -, tra competenze fornite e richieste: un ostacolo importante verso lo sviluppo socio-economico di qualsiasi nazione, a maggior ragione di una già piegata a livello lavorativo, per salari, stabilità e livelli di occupazione, come l’Italia.

Pensiamo poi al fenomeno dei divari territoriali, che definirei fondamentali nella questione della famiglia finlandese. A partire dai NEET: in Italia sono 3 milioni i giovani inattivi e l’incidenza al Sud è doppia rispetto al Nord e Centro. Ma anche per quanto riguarda abbandono scolastico, livelli di istruzione (un ventenne su quattro al sud non è diplomato), edilizia scolastica (che definire non a norma nella maggioranza dei casi è un eufemismo, in certe situazioni siamo al confine con la criminalità), doposcuola e qualsiasi altro dato il Sud è penalizzato rispetto al resto del Paese. 

Forse, se invece di farsi prendere da impellenti moti d’orgoglio i sedicenti intellettuali di questo Paese avessero colto l’occasione di fare una riflessione, adesso il dibattito sarebbe alquanto diverso.

Parleremmo di come modernizzare il sistema educativo, di come farlo andare alla stessa velocità degli altri Paesi europei. Invece no, difendiamo l’indifendibile e continuiamo ad accettare passivamente il perpetuarsi del peggioramento della formazione nostra e delle generazioni a venire. Il bello, come sempre in questi casi, è che i carnefici si pongono come strenui difensori della scuola, che i responsabili di riforme mal pensate - sia per studenti che per il personale scolastico - e di tagli inaccettabili si accavallano nel giudicare l’indignazione di una madre che - giustamente - non ha visto un futuro qui per suo figlio. La spesa in istruzione dal 2008 è andata calando in ogni stato europeo, ma - chissà che sorpresa - è l’Italia ad aver tagliato di più in proporzione alla spesa: nel 2009 la spesa in istruzione corrispondeva al 4,6% del Pil, mentre nel 2017 diminuisce dello 0,8%, attestandosi al 3,8%. Solo il Portogallo ha tagliato di più (1,9%), ma lo ha fatto partendo da una spesa del 6,5% del Pil. Tagli giustificati da altre emergenze bisognose di finanziamenti, da qualche altro accordo o trattato che necessitasse di qualche miliardo in più. Ma la crisi della pianificazione e della politica in generale deve essere davvero finanziata con il nostro futuro? Non possiamo, per una volta, prendere esempio da Stati come la Grecia che ha tagliato di un terzo rispetto all’Italia pur avendo una crisi economica senza precedenti? A quanto pare no. Molto più facile indignarsi quando qualcuno attacca il sistema scolastico italiano. Attenzione, non stiamo parlando delle eccellenze che sono comunque presenti, anche se si tratta perlopiù di istituti e università privati. Stiamo parlando di quel sistema pubblico con l’acqua alla gola, che fa sempre più fatica a soddisfare le esigenze di innovazione di un Paese ormai fermo.

Ma in sostanza quali sono i motivi precisi della scelta di questa chiacchieratissima famiglia finlandese? Prima lamentela: il livello non eccelso della scolarizzazione, ovvero delle competenze che vengono acquisite dagli studenti (in questo caso sembra nella lingua inglese). Secondo i dati più recenti circa quattro ragazzi su dieci non raggiungono le competenze alfabetiche e numeriche minime richieste. Impossibile addossare la responsabilità ai soli studenti, la situazione è più complessa e in primis andrebbero analizzate a fondo anche le competenze offerte e possedute dai professori.

Seconda lamentela: le classi sono talmente rumorose da impedire la concentrazione. La riforma Gelmini è la responsabile del calo di personale nelle scuole: nel triennio 2008-2011 le classi sono calate di 10.617 unità nonostante la quantità di studenti non sia diminuita così ampiamente. Sempre in quel triennio sono state eliminate oltre 90.000 cattedre intere, 30.000 cattedre di supplenti e 30.000 unità di personale non docente. A ciò si deve la formazione delle cosiddette “classi pollaio”, ovvero classi eccessivamente sovraffollate in cui lo svolgimento dell’attività didattica è, per usare un eufemismo, assai complicato: in un’età difficile dal punto di vista del coinvolgimento interpersonale come quella adolescenziale è assolutamente impensabile ipotizzare di non arrecare danni irreparabili alla formazione didattica e civica di uno studente formando delle classi così ampie. Lo studente lavora meno e il professore compie un surplus di lavoro nel cercare di formare correttamente un eccessivo numero di studenti. Si può facilmente ricollegare ad un famoso esempio in ambito microeconomico a proposito della corretta quantità di input, ovvero i fattori di produzione, utilizzabili in uno stabilimento produttivo: se la forza lavoro, in questo caso gli studenti, è sproporzionata rispetto al capitale di produzione (le macchine produttrici), il professore in questo caso, la quantità di input non è ottima, rendendo sì la produzione crescente, ma meno che proporzionalmente rispetto all’impiego degli input. In altre parole si stressa, lavorativamente parlando, eccessivamente il professore, non facendolo quindi rendere al meglio e, soprattutto, non permettendo che ogni studente “usi” correttamente ogni ora di lezione col professore, arrivando ad una situazione per cui le attività didattiche rendono molto meno rispetto all’impiego di ore e fatica da parte di studenti e professori. Rendono semplicemente meno rispetto a quelle svolte in una classe in cui la quantità di fattori, quindi di studenti e professori, sia “ottima”, cioè bilanciata. Inoltre è necessario considerare che, con l’accorpamento di diversi istituti e la diminuzione del personale docente, ogni professore si trova a seguire un maggior numero di classi, aumentando ulteriormente il carico di lavoro da svolgere.

Terza lamentela: l’assenza di pause. Qui si tocca un argomento delicato che, a parer mio, è l’emblema dell’esempio fatto poc’anzi. La litania che più si lavora e più si produce è sbagliata, non è stressando eccessivamente lo studente che si arriva a livelli di scolarizzazione più alti. Una concezione figlia del mito della produttività, del mito della quantità che prevale sulla qualità. Forse si finiscono i programmi, certo, ma a che scopo se ciò che rimane nelle teste dei ragazzi e ragazze è pochissima roba? Negli altri Paesi, come l’Inghilterra o la stessa Finlandia, ad ogni 45 minuti di lezione corrispondono 15 minuti di pausa. I ragazzi restano concentrati per tutta la lezione e la produttività aumenta. In Italia abbiamo 10/15 minuti di pausa a spezzare cinque ore di lezione. La produttività nelle ultime ore è a dir poco limitata.

Insomma, una polemica che poteva essere l’occasione per fare una riflessione seria sul futuro dell’istruzione è diventata tanto sterile da far passare come “ingrata” una mamma che denunciava le lacune nella scuola italiana. Invece di indignarci dovremmo pensare a come migliorare la situazione: una riforma dei programmi scolastici ad esempio, una maggiore digitalizzazione, nuovi investimenti che portino ad assunzioni e miglioramento o ampliamento degli edifici scolastici, delle politiche che non siano volte esclusivamente al potenziamento dei diplomifici e altri istituti privati ma che risollevino la scuola pubblica, maggiore attenzione all’orientamento universitario e all’alternanza scuola-lavoro, oltre al riallineamento tra competenze offerte e quelle richieste non solo dal mondo del lavoro, ma dal mondo in generale.

Perchè in un mondo sempre più globalizzato e che cambia alla velocità della luce, ogni Paese dovrebbe rendere il proprio sistema scolastico e universitario non solo al passo coi tempi, ma autosufficiente e in grado di autoregolarsi per mantenersi moderno ed efficiente. Tutto il contrario di quel che ha fatto e sta facendo l’Italia. Ci vuole orgoglio, ma non in questo senso. Ci vuole l’orgoglio per migliorare il futuro di questo Paese, non per difendere un sistema fallace. Ci vuole l’orgoglio al momento giusto, non in quello sbagliato. 
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