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Nuove tecnologie, nuove professioni

14/11/2022

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Dialogo sull'innovazione e occupazione in Italia col Prof. Alberto Tortora

Riccardo Imperiosi

Direttore Giovane Avanti!

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“Il Professore ci ha parlato del settore della stampa 3D. Sicuramente, se dovessi riassumere il tutto con una parola, questa sarebbe “duttilità”. Duttilità nella produzione: nel settore della stampa 3d (e aggiungerei in tutti quelli dove va aumentando con forza la digitalizzazione) la produzione è molto più versatile, snella e veloce, non c’è bisogno di economie di scala importanti per sostenere il processo produttivo. Ma soprattutto duttilità nella formazione: pensiamo un attimo - a fronte di una relativamente breve formazione per ottenere quelle competenze digitali necessarie all’utilizzo dei macchinari e alla progettazione del prodotto nello specifico caso - alla vastità di settori nei quali è possibile lavorare, dal cibo del futuro all’ambito medico.
Questo credo che sia il primo punto da tenere di conto per un eventuale confronto intergenerazionale se parliamo di industria (o meglio impresa) 4.0 e di digitalizzazione.
Altro punto fondamentale è il costo del lavoro, che va ad abbattersi notevolmente. O meglio, più che abbattimento del costo del lavoro, credo si tratti più di una crescita della produttività marginale, ovvero dell’incremento di prodotto dovuto ad un’unità aggiuntiva di forza lavoro. In Italia il costo del lavoro è basso in confronto agli altri paesi: ad esempio, secondo i dati Eurostat del 2019, in Lombardia il costo del lavoro ammonta a circa 25 euro all’ora, a Stoccarda sono quasi 38. La differenza sull’occupabilità? Lo diceva, con altri termini, il Segretario Bombardieri nella relazione al Congresso: il lavoro specializzato e l’innovazione non tolgono posti di lavoro, li aggiungono. La competenza tecnologica e la specializzazione servono alle aziende, che sono quindi incentivate all’assunzione, proprio perchè incrementando la forza lavoro di quella unità specializzata, la produttività cresce più che proporzionalmente rispetto a come sarebbe cresciuta con un’unità non specializzata. 

Per una specializzazione serve però una formazione adeguata, appunto specializzata. Pensiamo ai fortunatamente sempre più discussi ITS, oggetto da poco di una riforma importante: in queste scuole di eccellenza ad alta specializzazione tecnologica post diploma, la percentuale di giovani che risultano occupati alla fine del percorso di studi è altissima, circa l’80% e addirittura oltre il 90% in un’area coerente con il proprio percorso di studi. 

Però stiamo parlando comunque di percorsi - almeno per quanto riguarda gli ITS in Italia - che definirei, ancora e purtroppo, non convenzionali. Perchè non convenzionali? Perchè ancora, nell’immaginario comune, i percorsi di secondo livello, quindi post diploma, appartengono esclusivamente all’università (qui peraltro dovremmo aprire una parentesi sulla carenza di laureati nell’area STEM - scienze, tecnologia, ingegneria e matematica. Questa non è solo una percezione, in qualche modo lo confermano i numeri: gli iscritti ai percorsi ITS sono circa 19 mila, solo gli iscritti alla Sapienza si aggirano intorno ai 100 mila.

Ma soprattutto stiamo parlando di percorsi di secondo livello. Cosa succede se un ragazzo o una ragazza si ferma al diploma? Siamo davvero sicuri che le competenze offerte dal sistema scolastico siano allineate con quelle richieste non solo dal mondo del lavoro, ma dall’industria 4.0? Io personalmente, al netto di casi virtuosi, credo di no. Credo però, se proprio devo avventurarmi in un confronto intergenerazionale, che i millennials e la gen z abbiano una diversa e ovviamente migliore attitudine e approccio alla digitalizzazione rispetto ai boomer, sono nativi digitali e non potrebbe essere altrimenti. Per questo le nuove generazioni sono a parer mio un’opportunità per le PMI: portare quelle competenze digitali che naturalmente hanno vuol dire spesso portare direttamente non tanto l’innovazione nella produzione, ma l’innovazione nell’approccio alla produzione e al lavoro. Piccola aggiunta: questo non credo sia dovuto esclusivamente alle competenze digitali, ma anche della diversa concezione del lavoro - talvolta diametralmente opposta - con cui millenials e gen z si differenziano dalle generazioni passate: flessibilità, stabilità dinamica (il contrario di precariato statico), rivoluzione nei salari e negli orari di lavoro, da sostituire con gli obiettivi. Quindi oltre alle competenze digitali, portano con loro una diversa concezione, un’idea diversa di cosa significhi per loro il mondo del lavoro.

Parlavamo del diverso approccio: è proprio questo a facilitare notevolmente il loro ingresso nel mondo dell’innovazione: anche a fronte di un’eventuale formazione a carico dell’azienda (ritorna la produttività marginale) le nuove generazioni hanno un approccio e un’attitudine tali per cui l’occupabilità è più “garantita” rispetto alle generazioni passate. Tanto per citare un dato: in Italia solo il 37% della fascia d’età 15-65 anni ha un grado di alfabetizzazione digitale sufficiente (questo peraltro ci pone al 28esimo posto su 29 paesi appartenenti all’area OCSE) e a pesare su questa percentuale non possono essere i nativi digitali. È ovvio che l’alfabetizzazione digitale costituisca le fondamenta per un qualsiasi approccio alla digitalizzazione. Senza un livello sufficiente di questa, diventa davvero molto difficile formare i lavoratori, attuali o prossimi che siano. 

Eppure le professioni a rischio automazione non sono poche: circa il 14% dei lavoratori ne occupa una e, a conferma di quel che dicevo poco fa, solo il 20% di questi possiederebbe le capacità di prosperare in un mondo sempre più digitale. E infatti per molte di queste professioni diventa complicato trovare risorse umane - ulteriore dimostrazione del potenziale che l’innovazione ha in termini di occupabilità -, penso agli operai specializzati, per cui il reperimento è difficile nel 72% dei casi, ai tecnici informatici, telematici, della gestione dei processi produttivi o in campo ingegneristico, per cui per più della metà delle posizioni le aziende fanno fatica a trovare risorse.

La questione dell’innovazione nell’industria non è esclusiva del terzo millennio, esiste da quando esistono i sistemi produttivi, soprattutto quelli di massa. Smith, Ricardo e Keynes, che l’hanno affrontata nelle loro opere più importanti, concordavano su un punto: gli effetti positivi o negativi del cambiamento tecnologico non dipendevano e non dipendono tutt’oggi solo e soltanto meccanicamente dalle innovazioni, ma dai comportamenti e dalle strategie che gli attori sociali mettono in campo. In pratica ciò che determina il successo o l’insuccesso dell’innovazione è il comportamento e l’approccio degli imprenditori e dei lavoratori all’innovazione stessa. Come sindacato del terzo millennio la missione a questo punto è chiara: spingere verso l’innovazione ma non in modo coatto, accompagnando i lavoratori più e meno giovani verso il rinnovamento dei sistemi produttivi, formandoli e fornendo loro tutto il supporto necessario. Il compito del sindacato è far sì che tutti quei lavoratori coinvolti abbiano l’attitudine e l’approccio necessario affinchè l’innovazione produca realmente effetti positivi sull’occupazione e non si riveli l’ennesima stortura del mercato da risolvere.

Grazie a tutti.”
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