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Phubbing e Luddite Club: a confronto con due fenomeni sociali contrastanti della Gen Z

3/10/2023

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Cosimo Gagliani

Giovane Avanti! Milano


Alzi la mano a chi è capitato di interrompere involontariamente un’attività che in quel momento stava svolgendo per rispondere alle notifiche dello smartphone. Ecco, tutti!

Lo facciamo praticamente ogni giorno: seduti a tavola, mentre guardiamo la tv o mentre camminiamo per la strada anche se c’è una persona accanto a noi che ci accompagna, ignorandola per restare incollati allo schermo del nostro cellulare.
A questo fenomeno, nei confronti del quale siamo stati spesso vittime (o artefici), i sociologi e gli psicologi hanno attribuito un nome: Phubbing.

La parola “phubbing” è un neologismo che deriva dalla fusione di due termini anglofoni: “phone” (telefono) e “snubbing” (snobbare) e descrive quello spiacevole esperienza - o vizio - di trovarsi accanto a - o essere - una persona che ignora completamente il proprio interlocutore perché assorbito dalla lettura di mail, messaggi e post sui social.

Ciò che può essere considerato un atto volontario, come consultare lo smartphone quando questo segnala una notifica, diventa vera e propria patologia quando la consultazione diventa un gesto automatico del quale non ci si rende neanche più conto. Una compulsione alla quale l’individuo affetto non riesce a resistere e spesso la persona che la subisce, non comprendendone la dipendenza dell’altro, confonde come semplice - seppur sgradevole - maleducazione e mancanza di rispetto quella che invece è una conclamata dipendenza.
​ll crudele paradosso del phubbing è che trasforma uno strumento come lo smartphone, che dovrebbe servire a connetterci con persone distanti e a migliorare la socialità, in uno strumento di distruzione delle relazioni reali.

I più vulnerabili agli effetti sociopatici del phubbing sono le fasce più giovani della società, probabilmente le più esposte alla vita digitale.

Oltre alla maggiore difficoltà di intrattenere relazioni reali, la dipendenza da cellulare porta a una riduzione dell’attività fisica, a sintomi legati ad ansia, depressione, mancanza d’impegno sul lavoro, problemi legati alla sfera sentimentale nei rapporti di coppia, disattenzione del ruolo genitoriale.

Lo smartphone è il terzo incomodo nelle relazioni sociali: è l’amante indesiderato nel triangolo amoroso, il collega scocciatore che ostacola il nostro talento lavorativo, l’amico invadente e manipolatore dal quale il resto della comitiva ci ragguaglia.

Ma se gli svantaggi sono così evidenti perché, quindi, è così facile cedere al vizio del phubbing?

Lo smartphone è diventato un’estensione del nostro corpo, sia fisica che intellettiva.
Abbiamo abituato il nostro corpo ad una gestualità che fino a qualche decennio addietro era inusuale: lo scrolling, l’atto di scorrere il pollice sullo schermo; il side swape per passare da un reel all’altro; il double tap per attivare o disattivare funzioni. Per non parlare della postura scorretta data dal capo chino, le spalle introflesse e la schiena piegata in avanti.
Dal punto di vista intellettivo, abbiamo affidato al virtuale tutte quelle azioni che il nostro cervello compie quando deve relazionarsi con il mondo: facciamo “amicizia” sui social networks, ricerchiamo notizie sui motori di ricerca, ricordiamo date importanti per mezzo degli alerts, ci orientiamo attraverso un GPS ed esprimiamo le nostre emozioni con le emoji.

Avere a portata di mano tutto ciò, sintetizzarlo e ricondurlo ad un device, ci illude inconsciamente di avere tutti gli aspetti della vita sotto controllo. Senza accorgercene, arriviamo al punto di confondere la virtualità con la realtà.
Cedere alle dinamiche del phubbing, per quanto tossiche, lo riteniamo vitale e quindi indispensabile.

Se in fisica vale la legge per la quale, ad ogni azione esercitata in un sistema corrisponde una reazione uguale e contraria, sembra che lo stesso principio possa valere anche in sociologia.

Qual è, quindi, la reazione uguale e contraria al fenomeno sociale del phubbing?

La risposta ci arriva dai giovanissimi della “generazione Z”; proprio la generazione dei nativi digitali ha trovato l’antidoto al veleno dell’iperdigitalizzazione.
Sull’onda di un fenomeno nato in USA subito dopo il lockdown, quando l’utilizzo dei social media ha preso una deriva preoccupante, sono sempre più i giovani nel mondo che volontariamente abbandonano i social e si affidano ai vecchi cellulari - quelli senza connessione internet - il cui utilizzo è mirato soltanto alla funzione primaria del telefono, ossia effettuare e ricevere chiamate. Stop.

Questo fenomeno è chiamato “Luddite Club” e prende il nome da Ned Ludd, il folcloristico operaio tessile inglese del XVIII secolo che avrebbe distrutto un telaio meccanizzato, ispirando altri suoi colleghi a ribellarsi all’alienazione da lavoro che, in nome dell'industrializzazione, le macchine tecnologiche avevano portato nella vita di fabbrica.
Molti “adepti” hanno dichiarato che, aver rinunciato a smartphone e social con il fine di condurre una vita più semplice, ha permesso loro di ritrovare una socialità perduta, di apprezzare meglio il valore dei sentimenti e del tempo dedicato agli altri e a se stessi, di scoprire una creatività che non sapevano di avere.

Più che una forma di ribellione, il luddismo sembra essere una reazione ad un malessere diffuso e una risposta all’insoddisfazione del modello di vita che l’uomo moderno ha creato per se stesso, modello (simulacro di successo, affermazione e felicità) che snatura l’essere umano da quella sua caratterista intrinseca dalla quale non può prescindere la propria esistenza: essere un animale sociale.

E su queste basi che c’è da scommettere che il luddismo sia soltanto agli albori e in futuro sempre più gente abbandonerà l’ubriacatura digitale per abbracciare questo nuovo, ma antico, stile di vita.
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