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Riccardo ImperiosiDirettore Giovane Avanti! Nell’ultimo fine settimana si è svolta a Napoli l’Assemblea Generale del Consiglio Nazionale Giovani, l’organo consultivo cui è demandata la rappresentanza dei giovani in Italia. Durante i lavori è stata presentata un’importante ricerca sulla situazione contributiva e sul futuro pensionistico dei giovani. Come possiamo immaginare, niente buone notizie. Ormai la speranza di vedere la nostra - e le prossime a maggior ragione - generazioni in pensione è ridotta al lumicino, che va a spegnersi definitivamente quando la speranza è quella di una pensione dignitosa: con il sistema attuale le proiezioni per il 2057 raccontano di un'uscita dal mondo del lavoro a quasi 74 anni con un importo lordo mensile di 1577 euro, che al netto dell’Irpef diventano 1099. Una catastrofe sociale. La ricerca
La ricerca, dal titolo “Situazione contributiva e futuro pensionistico dei giovani. Quali risposte all’inverno previdenziale”, è stata realizzata dal Consiglio Nazionale dei Giovani in collaborazione con EU.R.E.S. Ricerche Economiche e Sociali. Secondo la Presidente del CNG Maria Cristina Pisani “la crescente precarizzazione e discontinuità lavorativa, associata a retribuzioni basse e mancanza di garanzie sociali, colpisce in particolare i giovani e le donne, rendendo più difficile il loro percorso di ingresso nel mercato del lavoro, la stabilità contrattuale e i livelli retributivi”, il che “comporta un impatto significativo sulla situazione previdenziale futura dei giovani: la questione demografica e il passaggio al sistema ‘contributivo puro’ mettono ulteriormente a rischio la sostenibilità del nostro sistema pensionistico. Questa tendenza impone ai cittadini di lavorare più a lungo per ricevere pensioni meno generose rispetto alle generazioni precedenti: la combinazione di discontinuità lavorativa e retribuzioni basse per i lavoratori under 35 determinerà un ritiro dal lavoro solo per vecchiaia, con importi pensionistici prossimi a quello di un assegno sociale. Una situazione che sarà socialmente insostenibile”. Anche secondo Alessandro Fortuna, Consigliere di Presidenza con delega alle politiche occupazionali e previdenziali, la situazione è tragica: “una stima che evidenzia la grave distorsione del sistema pensionistico, così come attualmente definito, che non soltanto proietta nel tempo le diseguaglianze reddituali, rinunciando a qualsivoglia dimensione redistributiva, ma addirittura risulta punitivo verso i lavoratori con redditi più bassi, costretti a permanere nel mercato del lavoro (al di là dell’anzianità contributiva) per tre o addirittura sei anni più a lungo dei loro coetanei con redditi più alti e ad una maggiore stabilità lavorativa”. La discontinuità occupazionale Ricapitolando: in Italia vige attualmente un modello “contributivo puro”, che sostanzialmente lega la possibilità di accedere a una pensione dignitosa all’intera storia lavorativa di un giovane. Questo ci obbliga a una riflessione obbligata: ma con livelli di precarizzazione e di discontinuità occupazionale molto elevati, a cui si aggiungono retribuzioni molto basse, questo sistema rimane sostenibile nel lungo periodo? Ma soprattutto, vista tale correlazione, come possono permettersi una pensione i giovani se non lavorano stabilmente e con continuità? Il contesto e le riforme attuate finora: un disastro dietro l’altro Guardando allo storico normativo in materia previdenziale notiamo come le due riforme più importanti siano la L.335/95 (la cosiddetta “Riforma Dini”) che introdusse il sistema contributivo - l’assegno pensionistico sarà determinato esclusivamente in rapporto all’ammontare dei contributi versati durante l’intera vita lavorativa -, il cui calcolo partì nel 1996, e la L.214/2011 (la cosiddetta “Riforma Fornero”), che ha esteso il calcolo contributivo attraverso l’applicazione del calcolo “pro rata” a tutte le anzianità maturate a partire dal 1 gennaio 2012. Per il mercato del lavoro invece sono state numerose le riforme, tutte però volte ad aumentare la flessibilità dei lavoratori, il che - secondo EURES - “in breve tempo ha aperto il campo alle diverse declinazioni della precarietà e discontinuità contrattuale e retributiva”. La ratio è sempre la stessa: sostenere la competitività delle imprese italiane sui mercati esteri riducendo le tutele del lavoro e comprimendone il costo. Primo problema di questo pericoloso trend: l’allargarsi delle fratture sociali tra imprese e lavoratori e, soprattutto, delle disuguaglianze già troppo ampie. Secondo problema: la sostenibilità a medio-lungo termine del sistema contributivo, visto che in soldoni la base contributiva (chi paga adesso, gli attivi sul lavoro) sempre più esigua non riesce a controbilanciare efficacemente le “uscite” delle pensioni maturate finora. Le retribuzioni dei giovani: siamo sempre più poveri I giovani sono sempre più poveri, anche a distanza di dieci anni e non dovendo saltare intere generazioni. I dati ci dicono che la retribuzione lorda annua media nel 2011 era di 20.682 euro, dato che nel 2021 sale a 21.868: un aumento che però non ha riguardato le fasce d’età più giovani, visto che nelle fasce considerate troviamo un aumento molto più esiguo nella fascia 25-34 anni (appena 569 euro) e addirittura una diminuzione di 221 euro per gli under 25. E comunque stiamo parlando di cifre - quelle delle fasce considerate - che mediamente si aggirano sui 14.500 euro lordi annui, circa i due terzi della media complessiva. Caso particolare gli stagionali che, come vedremo tra poco, sono in aumento: la loro retribuzione lorda annua media corrisponde a 5.112 euro, ovvero solo dei miseri 426 euro lordi mensili! Questo si chiama lavoro povero, un lavoro che toglie definitivamente ogni possibilità di immaginazione di un futuro pensionistico dignitoso. Anche il divario di genere va aumentando con le nuove generazioni, un cambio di passo che EURES definisce “preoccupante in termini sociali, culturali e di prospettive di competitività del sistema Italia”. Infatti, se nel 2011 la retribuzione lorda annua media si attestava a 12.448 euro tra le lavoratrici under 35 contro i 16.083 euro tra i loro coetanei - con uno scarto di 3.635 euro - nel 2021 troviamo i lavoratori più ricchi, con una retribuzione di 16.419 euro, e le lavoratrici più povere, con 12.136 euro lordi all’anno di media: lo scarto aumenta a 4.283 euro. La discontinuità lavorativa e il precariato: parola d’ordine “instabilità” Prima abbiamo detto che le riforme effettuate negli anni hanno moltiplicato il precariato: è semplicemente un dato di fatto. La percentuale di giovani lavoratori con contratti a tempo indeterminato si è sensibilmente ridotta nell’ultimo decennio, passando dal 70,3% del 2011 al 60,1% del 2021. Ovviamente questo ha prodotto un aumento dei contratti a tempo determinato e stagionali, che ricordiamo non offrire alcuna garanzia nè presente nè futura - dal punto di vista previdenziale - per i giovani: nel primo caso le quote si sono alzate di sei punti percentuali, dal 28,1% nel 2011 al 34,1% del 2021, mentre nel secondo (in cui peraltro si registrano livelli retributivi più esigui) si passa dall’1,6% al 5,8%. Anche guardando al numero di giorni lavorati nell’anno solare ci si accorge di come la situazione sia estremamente frammentata: tranne che nel caso dei contratti a tempo indeterminato (250 giorni all’anno), si parla di una quantità minima per i contratti stagionali - appena 81 giorni - e di appena superiore per i contratti a tempo determinato, con 133 giorni. Per ovviare a questa frammentazione EURES propone degli strumenti di sostegno alla continuità contributiva dei giovani per “attutire” le negative conseguenze future. Questo modello è sostenibile? Il paragone con gli altri Stati europei non è impietoso ma poco ci manca. L’Italia nel 2020 era il secondo Paese in Europa - dopo la Grecia - con la più alta incidenza della spesa pubblica per le pensioni sul Pil, il 17,6%: esattamente quattro punti percentuali sopra alla media UE. A livello pro capite la situazione però cambia: nonostante un’alta incidenza, in questa classifica il nostro Paese è solo 11esimo, con livelli (2.995 euro lordi) appena sopra alla media UE ma sotto a tutti i Paesi “riferimento” come Francia o Germania. Tralasciando la sezione che la ricerca dedica alla suddivisione della spesa, si può dire che dai dati emersi la situazione non è tanto tragica per la sostenibilità del sistema stesso (non dico che non vi siano evidenti problemi strutturali, anzi) quanto per la dignità degli importi pensionistici e gli anni di contributi necessari per andare in pensione. Infatti nella ricerca si legge che “sebbene il quadro emerso non possa invitare a un semplicistico ottimismo, le analisi svolte mostrano quanto l’insistenza sull’insostenibilità della spesa pensionistica rischi produrre un’eccessiva semplificazione del dibattito pubblico: come si è visto, infatti, la spesa per le sole pensioni di vecchiaia, al netto dell’Irpef, si mantiene costantemente al di sotto del 10% del Pil (al lordo di tale imposta nel periodo 2015-2021 passa dall’11,% al 12,7%), rappresentando, così, una voce di spesa tutt’altro che insostenibile, seppur cospicua”. Quindi gli interventi non sarebbero da eseguire per rendere sostenibile il sistema pensionistico ma per dare dignità al suddetto sistema nel futuro, attraverso interventi alla continuità lavorativa, all’incremento dell’occupazione e all’incentivo della natalità, oltre a misure redistributive anche in campo fiscale. In sostanza, come sarà il futuro del sistema pensionistico? Premessa: ovviamente qualsiasi tipo di previsione funge solo ed esclusivamente da indicatore, in quanto le variabili presenti in un arco di tempo così lungo sono troppe per rendere completamente attendibile qualsiasi dato. Per fare i calcoli i ricercatori si sono basati sui nati nel 1984 (odierni 39enni) che, in base alle condizioni, andranno in pensione nel 2050, nel 2053 o nel 2057: le tre condizioni sono la pensione anticipata, quindi a 66,3 anni, o per vecchiaia a 69,6 o 73,9 anni. Considerando i problemi del mondo del lavoro - descritti poco fa - che ogni giovane si trova ad affrontare e in particolare la discontinuità contributiva, tipica di un dipendente medio del settore privato, l’accesso alla pensione anticipata appare un miraggio: nonostante circa 46 anni (!) di contributi, il valore lordo dell’importo pensionistico - di circa 1055 euro divisi in tredici mensilità, corrispondenti a soli 807 euro netti - corrisponderebbe solo a 2,1 volte l’assegno sociale, rapporto che non arriva alla cifra di 2,8 con la quale si accede al pensionamento anticipato. Insomma, andare in pensione a 66 anni sarà estremamente difficile. Per quanto riguarda i due casi inerenti alla pensione di vecchiaia, la situazione non migliora di molto. Nel 2053 i 69enni andranno in pensione con circa 1249 euro lordi mensili, che al netto ammonterebbero a 951 euro. Nel 2057 invece, posticipando l’uscita dal mercato del lavoro a quasi 74 anni, l’importo si aggirerebbe sui 1577 euro lordi, che al netto dell’Irpef diventano 1099, primo dato sopra ai mille euro e che comunque equivale solo a 3,1 volte l’assegno sociale. Il divario di genere anche nelle pensioni Essere donna nel mondo del lavoro è più difficile, è un dato di fatto. Condizioni inique, salari mediamente più bassi (lo abbiamo visto poco fa) e una maggior difficoltà nell’accesso alle posizioni apicali sono solo alcune delle grandi difficoltà che le donne hanno quotidianamente sul lavoro. Tutto questo si traduce in assegni pensionistici strutturalmente inferiori a quelli degli uomini: in caso di - impossibile - pensionamento anticipato, l’importo netto per le donne sarebbe di 737 euro a fronte di 865 per gli uomini; il divario aumenta ancora in caso di pensionamento a 69,6 anni, arrivando a 150 euro per poi scendere leggermente a 99 euro in caso di pensionamento a 73,6 anni. Conclusioni Per descrivere l’attuale dibattito sul sistema pensionistico italiano potremmo fare un parallelismo con la crisi climatica: esattamente come non è a rischio la sopravvivenza del pianeta Terra ma quella degli esseri umani su di esso, non è a rischio l’esistenza di un sistema pensionistico, ma la sopravvivenza (perché, con tali cifre, di questo si parla) degli esseri umani all’interno dello stesso. Non è in questione se domani avremo una pensione, è in discussione in primis quando l’avremo e - nel caso - con quanto ci andremo. Prima considerazione: l’età di pensionamento è drammaticamente alta. Non è possibile lavorare ancora a 70 anni, soprattutto se consideriamo tutti quei lavori cosiddetti “usuranti”. Basti pensare all’età di pensionamento anticipato: a 66 anni suonati, età in cui in un Paese civile e moderno dovrebbe essere già arrivato il momento del riposo dopo una vita di lavoro, si è addirittura costretti a rinunciare a una parte dell’importo pur di andare in pensione. Seconda considerazione: le cifre sono ancor più drammaticamente basse. Una vita - oltre quarant’anni - di lavoro per poi andare in pensione con una cifra talmente misera da non essere sufficiente al fondamentale sostentamento umano, tale da rendere estremamente difficile e complicata la sopravvivenza stessa, a maggior ragione nell’odierna società iper-individualista. Così ad essere messa in discussione è l’intera concezione del mondo del lavoro: se fino ad ora le iniquità durante il periodo di attività lavorativa sono state in qualche modo “soppesate” dalla promessa di sostentamento e di un futuro tranquillo all’uscita dal mondo del lavoro, oggi anche tale promessa viene meno. Ed ecco il motivo per cui i giovani - in particolare i Millennials e la Generazione Z - sono molto più restii ad accettare salari, orari e ambienti di lavoro tossici e inadatti ad una corretta conciliazione vita-lavoro. Che poi, vedendo la frammentazione citata prima, sembrerebbe un cane che si morde la coda: proprio a causa dell’assenza - ormai più che prospettata e intuita dalle nuove generazioni - di un futuro pensionistico dignitoso, va aumentando la concezione per cui, banalmente, aumenta tale frammentazione. Non stiamo parlando ovviamente di tutti quei casi in cui la frammentazione è involontaria, come il susseguirsi perpetuo di contratti a tempo determinato, ma di una frammentazione volontaria che sembra comunque prendere sempre più piede tra i giovani, proprio per sfuggire alla routine o alla tossicità di determinati posti di lavoro. Le pensioni di garanzia “Alla luce di questi dati, come CNG, continuiamo ancora una volta a rivendicare l’introduzione di una pensione di garanzia per i giovani che preveda strumenti di sostegno e copertura al monte contributivo per i periodi di formazione, discontinuità e fragilità salariale dei giovani. Interventi cui dovranno accompagnarsi, se non si vuole ignorare il rischio di povertà cui sono esposte intere generazioni, modifiche strutturali che consentano un accesso stabile e di qualità nel mercato del lavoro restituendo, peraltro, sostenibilità a un modello previdenziale a scambio generazionale.” commenta Alessandro Fortuna. Il tema delle pensioni di garanzia è dirimente nell’Italia di oggi, sia per la tenuta sociale che per il futuro stesso del Paese. Da parte nostra continuiamo a rivendicare una misura che possa garantire benessere - almeno il minimo indispensabile per un tenore di vita dignitoso - alla future generazioni. Che possa ridare vita a quella promessa, che funge sia da collante sociale che da dinamo non solo per il sistema pensionistico, ma per tutto il mondo del lavoro.
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