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Quiet quitting: moda o rivoluzione sociale?

12/1/2023

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Cosimo Gagliani

Giovane Avanti! Milano

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​Sai cosa è il Quiet Quitting? Se sì, probabilmente ne avrai sentito parlare in maniera negativa.
Ma veramente il fenomeno del QQ è qualcosa che danneggerà la nostra società ed il mondo del lavoro?
Spieghiamo di cosa si tratta e perché la narrativa comune che demonizza questo fenomeno e ne distorce il significato è sbagliata.

Tutto nasce nell’estate 2022 sulla piattaforma TikTok precisamente a seguito di un video postato dal ventiquattrenne ingegnere newyorkese, Zaid Khan, che in un esaustivo monologo spiega il concetto di Quiet Quitting che in italiano sarebbe traducibile come “uscire silenziosamente”.

Nel filmato Khan racconta di questa tendenza che non è propriamente l’uscita dal mondo del lavoro, ma è l’uscita da quella logica deleteria che porta l’individuo a spingersi sempre oltre i propri limiti durante le ore dedicate all’attività lavorativa.
Chi aderisce a questo trend, in pratica, continua a svolgere le proprie mansioni lavorative ma smette di aderire alla cultura capitalista della competizione, dello sforzo produttivo a tutti i costi e dell’iperflessibilità disumanizzante, secondo cui il lavoro deve essere la principale ragione di vita.
La verità è che il lavoro non è l’unica cosa importante nella vita e che il valore della persona non è definito dai suoi risultati produttivi.

Il fenomeno ha suscitato l’interesse dell’opinione pubblica in tutto il mondo, Italia compresa, ed è un fenomeno che merita attenzione perché è innegabile che molte persone appartenenti alla Generazione Z o ai Millennials (in totale una fascia d’età compresa tra i 20 e i 35 anni), dopo la pandemia da COVID-19 e i vari lockdowns, abbia ripensato alle priorità della vita.
Possiamo definire il QQ come l’altra faccia della medaglia del fenomeno del “Great Resignation” (Grandi Dimissioni), perché il sentimento ed i bisogni che smuovono questi due fenomeni sono praticamente gli stessi. Sono cambiate le priorità esistenziali della gente ed è stata rivista la scala dei valori.

Le nuove generazioni non sono più disposte a fare compromessi sul posto di lavoro; non sono più disponibili a mediare. Ecco che l’insoddisfazione diffusa si traduce nella reazione di dimettersi dal posto di lavoro per cercare ambienti lavorativi socialmente di migliore qualità oppure, come nel caso del QQ, di non lasciare il posto di lavoro ma di ridurre l’impegno produttivo facendolo rientrare esclusivamente entro i limiti del sinallagma contrattuale.
Ricordiamo inoltre che questi fenomeni sono completamente slegati da ragioni salariali.

Purtroppo la distorta narrativa filo-industriale considera questi trends come fenomeni per giustificare comportamenti fannulloni ma non è colpa dei giovani se ormai politiche scellerate che puntano solo al profitto economico delle aziende, hanno di fatto svuotato il mondo del lavoro dai valori quali senso di appartenenza, socialità, emancipazione e crescita intellettiva.
È un errore, quindi, denigrare questo fenomeno come mera oziosità giovanile poiché ci renderebbe ciechi di fronte ai cambiamenti della società produttiva.

La società è sempre più caratterizzata da enormi diseguaglianze e l’ascensore sociale è fermo. Non trova più proseliti l’ingannevole promessa per la quale a sforzi lavorativi extra equivale la ricompensa sociale di brillanti carriere. I lavoratori di oggi hanno già superato quella modello lavorativo per il quale ad otto ore del proprio tempo e della propria attività equivale uno stipendio. Oggi chi lavora ha uno sguardo più ampio e consapevole della propria condizione lavorativa e concepisce le otto ore lavorative come parte integrante della propria esistenza e del proprio tempo di vita, utile anch’esso nel perseguire i propri sogni e coltivare le proprie passioni senza rinunciare alla vita privata. Questo non vuol dire che i nuovi lavoratori non siano più disposti a fare sacrifici ma che questi, però, devono essere giustificati e pianificati in un’ottica di miglioramento della propria vita sociale, e che questi nuovi valori non possono più essere barattati con un premio di produzione in denaro.

Il modello economico capitalista in cui viviamo si è fondato ed ha prosperato sul concetto di miglioramento produttivo continuo di cui la retorica dell’andare oltre i propri limiti è l’esempio classico. Ma se vedessimo il fenomeno del Quiet Quitting come una rivoluzione della coscienza sociale che mette in discussione le fondamenta ideologiche del capitalismo? Potremmo allora spiegarci l’astio verso questo fenomeno da parte di alcune sfere del potere costituito.

In una società dove tutto cambia, dove cambiano anche le modalità di lavoro (esempio: smartworking), dove cambiano i valori e le priorità, ha ancora senso ragionare ed impostare la società con forme di capitalismo già superate?

Il Segretario Generale della UIL, PierPaolo Bombardieri, lo scorso ottobre durante l’ultimo congresso dell’organizzazione sindacale, nel suo discorso ha affermato che bisogna rivedere il concetto errato per il quale “il lavoro nobilita l’uomo” quando invece è l’uomo che con la sua azione nobilita il lavoro. Quella del Segretario di uno dei Sindacati più rappresentativi, è un’affermazione lucida e lungimirante che la dice lunga su quanto il fenomeno del Quiet Quitting non sia una moda transitoria ma un fenomeno sociale al quale, come società, non possiamo sottrarci e che probabilmente ci obbligherà a riflettere su cosa è oggi il mondo del lavoro ed a rivederne il significato. 
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