Giovane Avanti!
  • HOME
  • CHI SIAMO
    • GIOVANE AVANTI!
    • AVANTI!
    • MONDO BRERA
    • LA NOSTRA CASA
    • COLLABORAZIONI
  • GIOVANE AVANTI!
    • ARTICOLI
    • RUBRICHE >
      • LAVORIAMOCI
      • L'APPROFONDIMENTO DI GIORGIO PROVINCIALI
      • PARITÀ DI GENERE
      • IL MONDO DELL'ISTRUZIONE
      • PILLOLE D'AMBIENTE
      • COSA SUCCEDE NEL MONDO
      • SETTIMANA ITALIANA
      • 10 FILM DA GUARDARE QUESTO MESE
      • ACCADDE OGGI
    • ARCHIVIO
  • VIDEO
  • CONTATTACI
  • EVENTI
Picture
LEGGI ALTRI ARTICOLI SUL SITO GIOVANIREPORTER.ORG
GIOVANI REPORTER
LEGGI OUTLOOK GIOVANI SU TERZO MILLENNIO
OUTLOOK GIOVANI
LEGGI LA RUBRICA LAVORIAMOCI IN COLLABORAZIONE CON UIL E TERZO MILLENNIO
LAVORIAMOCI

Siamo tutti omofobi (anche se non lo capiamo)

23/12/2023

0 Commenti

 

Loris Gianneschi, Alessandro Lucido, Giuseppe Vitale, Mattia Carramusa


Un tredicenne si suicida perché da qualcuno additato come omosessuale. Una ragazza di diciassette anni scrive al presidente del tribunale perché firmi l’affido a una coppia LGBTQIA+: “Mi state privando della felicità”, scrive lei. Coppia gay viene aggredita, insultata, minacciata, presa a sputi e schiaffi in un ristorante di Milano da un gruppo di persone. A Pavia, una persona transgender picchiata e minacciata di morte. Foggia, padre picchia, insulta e minaccia di morte il figlio per il suo coming out: “Pubblicherò tutte le tue foto da travestito, ti renderò la vita impossibile. Ti ammazzo, ti taglio la testa”. Diciottenne picchiato e preso a calci in centro città nell’indifferenza di tante persone. Trento, una coppia gay di universitari presi a insulti, pugni, spintoni e minacciati di morte con un coltello. Bagno a Ripoli, madre denuncia le violenze e gli atti di bullismo subiti dal figlio pubblicamente gay. Manager chiamava il cassiere omosessuale “ricchione di merda” e “principessa” davanti a colleghi e clienti: licenziato dai dirigenti solo dopo la denuncia sui giornali. 
​

Queste sono solo alcune delle cronache dell’ultimo mese. Cronache di ordinaria omobitransfobia. Cronache che riportano solo alcuni dei fatti denunciati alle autorità o subiti dalla comunità LGBTIA+. Quelli più gravi, quelli che fanno visualizzazioni. Ma la realtà è molto più grave di quello che sembra. 
Alcuni fatti
Secondo stime prudenziali di molte organizzazioni, le violenze omobitransfobiche note e denunciate rappresentano solo una misera parte di quelle effettive. Ciò vale anche in Italia. Esistono diversi coni d’ombra: gli atti non denunciati per vergogna socialmente indotta, gli abusi nelle famiglie, i fatti di discriminazione non penalmente rilevanti e via compagnia cantando.
L’ISTAT, insieme con l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale, solo negli ultimi tre anni ha acceso i riflettori statistici sulle discriminazioni queer in Italia. E i dati che iniziano ad emergere sono profondamente preoccupanti. Discriminazioni prima del lavoro, alla stipula del contratto e sul posto di lavoro, discriminazioni negli atenei universitari e nelle scuole da parte di studenti, docenti e personale amministrativo, persone e coppie spinte ad abbandonare lavoro, scuola, casa, città eccetera. Tutte persone che portano lo stesso stigma sociale: essere queer. 
È inutile prenderci in giro. Anche se l’omosessualità non è più considerata una patologia dal 1990, così come in transgenderismo dal 2018, soprattutto in Italia il pregiudizio è sempre vivo. Siamo trattati, troppo spesso, come appestati. Come lebbrosi contagiosi. E a parte qualche isola felice e qualche comunità fidata, abbiamo paura di uscire dall’armadio, di vivere serenamente ciò che siamo. 
Esiste un moralismo becero che porta a considerare le persone queer non al pari degli altri e delle altre. Una morale becera figlia di un bigottismo insulso e riprovevole, ideologico o dogmatico. Moralismo che partorisce una queerfobia dai tre volti: una manifesta e violenta, una interiorizzata e passiva, una rancorosa e guardinga. 
Non è anche questa, forse, un’oppressione?
Non possiamo manifestare la nostra identità. Se siamo persone transessuali, non siamo accettati come uomini o come donne: rimaniamo persone identificate col sesso e col corpo in cui siamo nate, anche se non siamo quel corpo, non ci identifichiamo in quel corpo, non seguiamo gli stereotipi imposti per quel corpo. Se siamo persone queer, non possiamo andare all’università, a scuola, al lavoro o anche solo in giro truccati e vestiti come desideriamo senza rischiare una sospensione, un licenziamento o un pubblico linciaggio. Se amiamo una persona del nostro stesso sesso dobbiamo vivere nella paura di tenerci per mano. 

Discriminazione e oppressione di serie D
Tutto ciò che subiamo, se non è violento, viene da molti sminuito e sottovalutato. Viene passato sotto silenzio. E quando un tredicenne si suicida perché additato e trattato da alcuni (pochi? Molti? Tutti?) come omosessuale, ci si limita alla bruta cronaca per un paio di giorni, poi basta. Al massimo, Luciana Littizzetto ci fa una lettera commovente per “CheTempoCheFa”. Poi basta.
Nessuno, opinionista o politico, si interroga sul perché sentirsi dare del “gay”, oggi, uccida. Nessuno che proponga una battaglia politica, sociale e culturale su questo punto. Nessuno. 
Forse solo Arcigay, qualche influencer queer e il Consiglio Nazionale dei Giovani. Ma robe che restano solo nella “bolla” LGBTQIA+. Che non finiscono nei talk show tanto seguiti da cinquantenni-sessantenni e pensionati, o nei tavoli di discussione dei partiti e delle associazioni culturali, o nelle sale gremite per lezioni, conferenze o formazione aziendale.
Una morte, una violenza, una oppressione di serie D. Non al pari, come attenzione e tensione, ad altre. Questa è queerfobia. Solo che è interiorizzata e passiva. È quella che riteniamo quasi “connaturata”, solo perché fa stare in pace con sé stessi per dire che non si è come quegli altri, violenti.
È quella che sottovaluta il “frocio di merda”, il “lesbica del cazzo”, il “trans schifoso/a” eccetera lanciato a uno o una di noi da un gruppo di compagni e/o compagne. È quella che sottovaluta la solitudine della nostra condizione in un mondo costruito e pensato da eterosessuali per soli eterosessuali. 
È quella che spinge un provveditorato, un preside o un professore a sottovalutare la necessità di attivare le carriere alias nelle scuole e chiamare una persona transessuale col suo nome, invece che col suo dead name. È quella che porta a ritenere la nostra oppressione diversa, e quindi inferiore implicitamente o esplicitamente, ad altre oppressioni invece di postulare la solidarietà universale (richiamata dalla mozione Musmeci) tra le oppressioni.
C’è un problema culturale in Italia, che spinge a considerare le persone queer come malate e quindi, implicitamente, favorite o “risarcite” per un “handicap sociale”. Chi usa determinati termini lo fa per ignoranza, invidia, rabbia, pregiudizio. A volte proprio per rendere “inferiore” agli occhi di altri e altre, discriminare, colpire, aggredire le persone queer. 
Chi non lo è lo percepisce come un insulto. Chi lo è lo vive, a seconda del contesto, o come uno scherzo di pessimo gusto o come un attacco personale. Entrambi, quando deboli e indifesi, si chiudono in sé stessi, si deprimono. Se non aiutati ad uscire dall’armadio, si suicidano. 

Non chiedeteci di rimanere nell’armadio
Siamo in tanti, forse in troppi, che passano sopra e sotto tantissimi atti di queerfobia. Anche, e soprattutto, nel web. Non-luogo metafisico dove ogni persona LGBTIA+ ritaglia il suo angolo di “eccentricità”. E dove comunque viene raggiunto da schermaglie, insulti, assalti omobitransfobici. Ma semplicemente, con lo stile eccentrico che ci contraddistingue, molti di noi ci scherzano su, deridono gli omofobi e vanno avanti. Ma c’è sempre chi, indifeso, se ne prende a male, si lascia opprimere e, lentamente, muore dentro. A volte anche “fuori”. Nell’indignazione duratura quanto la vita di una farfalla a cui vengono strappate le ali.
Questo, addirittura, se non succede che molti reprimano la propria essenza queer. Centinaia sono i messaggi a diversi influencer ogni giorno, di adolescenti e persone adulte che non fanno coming out perché vivono in una casa, in una famiglia, in una società, in un quartiere, in una realtà oomobitransfobica. 
Molti sono stati quei casi, anche quest’ultimo anno, in cui si è scoperto dopo tempo – spesso solo grazie all’attenzione di un insegnante – che un adolescente queer, scoperto dai genitori sul web, venisse picchiato violentemente, isolato da tutto e da tutti e costretto a terapie riparatorie con psicologi compiacenti. 
La soluzione non può e non deve essere “siate più discreti”. Non può e non deve essere sminuire o minare le nostre identità perché non rispondenti ai vostri canoni. Non può e non deve essere quello di rimanere o di tornare, nell’armadio per il quieto vivere. Per il vostro quieto vivere. Non chiedetecelo: equivale a ucciderci. 
Omofobia Italia: il governo più omobitransfobico nella storia repubblicana
Ora, immaginatevi la nostra vita oggi. È vero, non finiamo più nei manicomi in quanto queer. Ma è rimasto quel sentore di appestati contagiosi. E quando eccelliamo sul lavoro, dobbiamo sentirci dire “va be’, fa carriera e non viene licenziato/a/u perché frocio/bisex/lesbica/trans”. O nelle famiglie “è solo un momento di passaggio” nel migliore dei casi, “ti hanno contaminat-/contagiat-/plagiat-” mediamente. 
Sono ancora pochi i genitori italiani che veramente accettano di aver cresciuto persone LGBTIA+.
A tutti questi, aggiungiamo altri fatti. Stiamo vivendo sotto il governo più a destra e più queerfobo della storia repubblicana. Molto più di governi pseudo-centristi democristiani e di quelli di centrodestra berlusconiani.
Un governo che ha usato la lotta alla gestazione per altri, battaglia nobilissima, come facciata per colpire la comunità delle famiglie arcobaleno. Un governo in cui il ministro dell’interno vieta la trascrizione dei figli delle famiglie omogenitoriali, delegittimandone almeno uno, quando non entrambi. Un governo sotto il quale, dati alla mano, le violenze contro le persone queer sono aumentate sensibilmente e vengono maggiormente taciute. Un governo per il quale le teorie queer, che evidenziano, rendono visibili e danno forza e speranza a milioni di italiani e decine di milioni di persone in UE di accettarsi e viversi, sono un male da combattere. 
Un governo espressione di quelle retoriche violente che abbiamo vissuto, anche sulla nostra pelle, nei campi nazisti, in quelli sovietici, in quelli guevaristi a Cuba eccetera. Quelli che viviamo in molti paesi ancora oggi. Come quella di tutti quei paesi, non solo islamici, dove essere queer è reato. In alcuni dei quali rischiamo la pena di morte. 

Mettersi nei panni altrui aiuta
Come possiamo viverci con serenità? Soprattutto se questa destra fa il “lavoro sporco” per una retorica viva anche a sinistra che ci discrimina e opprime, inconsapevolmente o scientemente che sia! Soprattutto: con chi parlare? Chi sono i nostri interlocutori istituzionali e politici?  Chi può ascoltarci?
E ben venga che la chiesa apra ufficialmente a padrini e madrine queer e al battesimo dei bambini delle famiglie arcobaleno. Sul battesimo, il pontefice ha ribadito che l’acqua è bagnata. Su padrini e madrine poteva pensarci prima che diverse diocesi iniziassero a sospendere, eliminandolo, il ruolo dei padrini e delle madrine. 
Ben venga anche che dei giudici condannino un comune a trascrivere in Italia l’adozione dei figli che due famiglie arcobaleno hanno adottato all’estero. Rimane però la direttiva politica del ministro Piantedosi contro le trascrizioni.
Non vogliamo essere soli. Non possiamo. Non è giusto. Anche se siamo abituati da secoli di retorica oppressiva e violenta. E anche se siamo abituati a passare sopra a tutto e sotto a tutto. Vogliamo accettarci e viverci, venendo a nostra volta accettati dalla società in cui viviamo e ci riconosciamo. 
Non dobbiamo avere paura di essere insultati e insultate a lavoro perché facciamo cross-dressing. Non dobbiamo viverci nel terrore di essere giudicati e perdere i nostri diritti perché ai nostri Pride ci vestiamo in modo inusuale o ci svestiamo (basta andare a mare per veder di peggio, e lì di bambini se ne vedono più che al Pride), perché indossiamo il cerone e la parrucca quando facciamo le Drag Queen o i Drag King oppure solo perché ci mettiamo smalto e rossetto prima di uscire. Non dobbiamo avere paura di morire o essere aggrediti perché ci amiamo. Non dobbiamo avere il terrore di non poter dare amore e crescere i nostri figli e le nostre figlie per la sola colpa di non andare a letto con una persona nata con lo stesso nostro sesso. Non dobbiamo avere il timore di farci chiamare coi nostri nomi, invece che col dead name, e identificare per quel che siamo, perché non siamo il corpo in cui siamo nati e nate, senza essere persone giudicate, escluse o di cui ignorano ciò che siamo.
Abbiamo il diritto di accettarci e viverci. Abbiamo il diritto di essere accettati. Abbiamo il diritto di godere dei nostri diritti in quanto cittadini, non in quanto queer. E abbiamo diritto a che i diritti, ad oggi preclusi, siano accessibili anche a noi. In uno stato che si presume laico ce lo aspettiamo. Se non per rispettare tutti e tutte noi, almeno per rispettare l’articolo 3 della Costituzione.

Siamo tanti, ma con voi di più
Noi possiamo denunciare. Possiamo iniziare questa lotta. Possiamo combatterla. Ma non possiamo lottare da soli e sole. 
Tutti abbiamo i nostri personalissimi “dottor Frank-n-Furter”, dentro. Noi queer li accettiamo. Esistono persone che non li accettano. Quella si chiama queerfobia. O, se preferite, omobitransfobia. Che esiste in tante forme, come già detto. Quella interiorizzata e passiva, figlia di un moralismo insulso derivato da un bigottismo pseudo-cristiano, è tra le più pericolose. Perché relega la nostra oppressione, e la nostra discriminazione, ad accadimento estemporaneo di dimensione, portata, caratteristiche e pericolosità inferiori. Sottovalutando, nei fatti, la nostra discriminazione.
Le lotte non le fanno solo le persone che fanno parte di qualcosa: le lotte le fanno anche le persone che accompagnano. Bartali faceva la staffetta per i partigiani e per il CLN senza essere né partigiano né membro del CLN. Loris Fortuna e Vincenzo Balzamo hanno proposto e lottato per il diritto all’aborto con le donne e per le donne.
La lotta queer non è solo la lotta dei queer. È anche per i queer e con i queer. Lottiamo insieme. Proprio nell’ottica di quella solidarietà universale. Aiutateci a lottare, lottiamo insieme. 
Anche se ci lascerete soli e sole, continueremo a lottare. Sarà più difficile. Qualcuno si convincerà e vi convincerà che il nemico siamo noi. Ma noi rimarremo lì. Così come siamo. Un po’ “eccentrici”. Insoliti. Anormali, se volete. Ma questo essere “eccentrici”, “queer”, che le persone etero-cis ci hanno appioppato come insulto per anni, fine ci calza bene. Come un abito di Armani su Julia Roberts!
0 Commenti



Lascia una Risposta.

    Categorie

    Tutti
    2021
    2022
    2023
    2024

    Foto
    PRIMO NUMERO DI GIOVANE AVANTI!
Foto
  • HOME
  • CHI SIAMO
    • GIOVANE AVANTI!
    • AVANTI!
    • MONDO BRERA
    • LA NOSTRA CASA
    • COLLABORAZIONI
  • GIOVANE AVANTI!
    • ARTICOLI
    • RUBRICHE >
      • LAVORIAMOCI
      • L'APPROFONDIMENTO DI GIORGIO PROVINCIALI
      • PARITÀ DI GENERE
      • IL MONDO DELL'ISTRUZIONE
      • PILLOLE D'AMBIENTE
      • COSA SUCCEDE NEL MONDO
      • SETTIMANA ITALIANA
      • 10 FILM DA GUARDARE QUESTO MESE
      • ACCADDE OGGI
    • ARCHIVIO
  • VIDEO
  • CONTATTACI
  • EVENTI