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di Ettore di Mattia I vecchi tormentoni, si sa, sono duri a morire. Ne sanno qualcosa i nostalgici della fiamma tricolore che per l'occasione tirano fuori l'album dei ricordi in cerca della frase giusta da sfoggiare. Questa volta il vincitore della contesa in risposta al problema del sovraffollamento carcerario è stata "Costruiremo più carceri!".
"Penso che il tema del sovraffollamento carcerario si risolva aumentando la capienza nelle carceri, assumendo e sostenendo la polizia penitenziaria come il governo ha fatto in questo anno, perché è l'unica risposta seria che può dare uno Stato". Così ha commentato da Tokyo la Presidente del consiglio, corredando il tutto con un puerile attacco all'opposizione che semplifica brutalmente un diverso approccio da quello afflittivo-punitivo tanto caro alla destra reazionaria: "Se invece si ritiene che la risposta seria che può dare lo Stato sia, poiché non c'è abbastanza spazio nelle carceri, togliere i reati per fare in modo che persone colpevoli non paghino e non seguano il corso dei procedimenti giudiziari, su questo non sono d'accordo, ma del resto non sono di sinistra, come si sa". Per fortuna, aggiungerei sommessamente. Non vorrei mai che un leader politico si esprimesse con una tale bassezza nell'affrontare un problema serio come questo. Andrebbe infatti ricordato alla presidente del consiglio, come sottolinea da tempo l'associazione Antigone, che in Italia sono necessari almeno 10 anni per portare a termine la costruzione di una nuova prigione. Nel frattempo, il sovraffollamento rimane un problema immediato e urgente che richiede soluzioni immediate. Costruire un carcere non è solo una questione di investimenti finanziari. Servono circa 25 milioni di euro per la realizzazione di una nuova struttura, e considerando il numero attuale di detenuti senza posti regolamentari, sarebbero necessari ben 52 nuovi istituti, per un totale di oltre 1 miliardo e 300 milioni di euro. A voler quindi sostenere l'argomentazione del capo di governo, sarebbe necessaria una programmazione a lungo termine che preveda un considerevole stanziamento di fondi. Cosa che ad oggi non è stata realizzata. A ciò si aggiunge la conclamata carenza di personale operante negli istituti penitenziari, figure fondamentali per il corretto funzionamento delle carceri. Secondo l'ultimo rapporto Antigone infatti il sistema penitenziario italiano risulta essere caratterizzato sia da una forte disparità fra operatori di polizia penitenziaria ed altri operatori, sia da una generalizzata carenza di educatori. La carenza di personale fra gli agenti pare, invece, essere l’inevitabile conseguenza di precise scelte di politica penitenziaria che hanno previsto un elevatissimo numero di poliziotti nelle piante organiche degli istituti il cui peso, rispetto agli altri operatori ed ai detenuti, non trova riscontro in altri paesi europei. Tutto ciò in vista di una operazione di contenimento dell'individuo a discapito della funzione rieducativa. "Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere e, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori, quindi in strutture particolarmente fatiscenti, con poche attività trattamentali, con una scarsa presenza del volontariato". Questo incipit presente nella terza sezione del dossier prodotto dalla celebre Giornale della Casa di Reclusione di Padova "Ristretti Orizzonti", basterebbe ad indicare come la semplice costruzione di nuovi edifici debba per forza di cose implicare la selezione di ulteriore personale, cosa che ad oggi non è stata realizzata. "In alcuni casi le persone che si sono tolte la vita erano affette da malattie invalidanti e ricoverate in Centri Clinici Penitenziari, ma sembra che sia l’allocazione in un determinato reparto a rappresentare il principale fattore di rischio, più che la gravità della patologia: nell' Infermeria di Rebibbia, nel Reparto Malattie Infettive di Marassi, come nel Reparto Osservazione per Tossicodipendenti di San Vittore, si sono uccisi anche detenuti che non erano gravemente ammalati. Forse il fatto di raggruppare i detenuti in base al loro stato di salute, con l’occasione di specchiarsi quotidianamente nella doppia sofferenza dei compagni, quella della detenzione e quella della malattia, contribuisce a far perdere ogni speranza. In questo concetto, della perdita di ogni speranza c’è la spiegazione per la maggior parte dei suicidi che avvengono nelle carceri. L'elemento che purtroppo accomuna i suicidi dei soggetti appena arrestati con quelli che stanno per terminare la pena è la mancanza totale di prospettive, seppure in situazioni molto diverse tra loro. Nessuna prospettiva di riottenere la rispettabilità persa per chi, da detenuto, attende il processo per mesi ed anni: anche se fosse assolto, non potrà più liberarsi dal marchio del sospetto. Nessuna prospettiva di poter trascorrere utilmente la detenzione, per chi sa di dover scontare molti anni: in tante carceri, spesso proprio quelle dove sono più frequenti i suicidi, il tempo della pena è tempo vuoto, dissipato lentamente aspettando il fine pena. Nessuna prospettiva di poter tornare a vivere normalmente". Quest'anno dal 5 al 31 gennaio nelle carceri italiane si sono uccise 13 persone, più del triplo rispetto al 2023. Dodici dei detenuti morti in carcere a gennaio si sono impiccati, mentre un altro, è morto lo scorso 6 gennaio dopo un lungo sciopero della fame. Ovviamente "ogni detenuto morto suicida è sicuramente una storia a sé che non si risolve andando alla ricerca di capri espiatori da sanzionare", ricorda Patrizio Gonnella presidente dell'associazione Antigone. "Non si risolve sanzionando il poliziotto che si sarebbe distratto o lo avrebbe perduto di vista per qualche secondo fatale. Si affronta guardando alle cause sociali, culturali e strutturali del sistema penitenziario italiano. Modernizzando una vita penitenziaria che ancora si snoda con ritmi e riti premoderni" Secondo il ragionamento sbrigativo della presidente Meloni sarebbe quindi superfluo concentrarsi sulla depenalizzazione e sulle misure alternative alla detenzione che invece allevierebbero il sovraffollamento carcerario, favorendo il reinserimento sociale dei detenuti e tentando anche di ridurne il tasso di recidiva. Bisognerebbe utilizzare invece il pugno duro. Magari una legislazione da proporre in base ad spinte emozionale, come accaduto recentemente a seguito dei fatti di Caivano. Stando al 7° rapporto sulla giustizia minorile dell’associazione Antigone, all’inizio del 2024 sono circa 500 i detenuti nelle carceri minorili italiane. I ragazzi in misura cautelare sono 340, mentre erano 243 un anno fa. Da oltre dieci anni non si raggiungevano numeri simili, segno evidente degli effetti del decreto Caivano. "Per la prima volta, dopo tanto tempo, alcune carceri minorili hanno cominciato a registrare situazioni di sovraffollamento. Proprio come quelle per gli adulti". Commenta così Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, secondo cui il dato relativo agli stranieri mostra che il sistema funziona meglio per chi è a monte più garantito e può contare su reti sociali e familiari esterne. Secondo l'interessante report di Elia De Caro per Antigone "Paradossalmente ad ogni stagione si ritiene poi di intervenire nuovamente aggravando quegli strumenti che ad oggi hanno dato prova di un pessimo funzionamento come del resto dimostra la necessità di intervenire su disposti normativi recentemente introdotti nell’ordinamento...oppure si assiste all’ennesimo intervento restrittivo sulla legislazione non riuscendo in alcun modo a contrastare i numeri del fenomeno da reprimere, vedasi il consumo e il traffico degli stupefacenti”. Con il cosiddetto Decreto Caivano si interviene sulla normativa degli stupefacenti e sulla normativa del diritto penale minorile, oltre a prevedere un ampliamento delle misure questorili, di cui si aumenta portata e discrezionalità, quali fogli di via e Daspo urbano, volti a realizzare esclusivamente obiettivi di ordine pubblico. Il tutto “senza alcuna attenzione a dati di statistica giudiziaria sull’efficacia delle politiche intraprese, si interviene quindi in base a un ritenuto allarme di criminalità minorile, laddove l’Italia in realtà è tra i paesi in Europa con il minor tasso di reati commessi da minori". Inoltre si tende ad intaccare il codice di legislazione penale minorile, ostacolando i processi educativi dei minori facendo leva sul carattere repressivo della pena arrivando ad interrompere in alcuni casi il percorso formativo del minore, prediligendo invece un'ottica di rieducazione dimenticandosi completamente esigenze di studio o legate allo sviluppo del minore e ai processi educativi in atto, essendo disposto esclusivamente che tali misure prevedano modalità applicative del divieto compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del destinatario dell’atto. Punire per educare insomma, concetto tanto caro alla destra quanto vetusto e incompatibile con le moderne esigenze di tutela dell'individuo.
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