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terra di confine: tra romania e ucraina

28/5/2022

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edoardo carboni

Giovane Avanti! Marche

“Tu sei dove sono i tuoi pensieri, allora fa che i tuoi pensieri vadano dove tu vorrai essere” - Nachamn di Breslov 

Ho pensato più volte, prima di iniziare a scrivere di questa esperienza, a quale sarebbe stato il modo più efficace, nei termini e nei modi, per rendere al meglio il significato di questo viaggio. Ho trovato, nei contorti pensieri che personalmente mi accompagnano prima di ogni azione che non contempli il tintinnio del quotidiano, quasi la certezza che mi culla davanti ad un paesaggio che rapisce l’attimo, di fronte al quale sembra riduttivo nell’immediato di una foto cogliere nel tempo le sfumature che ne rivelano l’infinito.
Proverò quindi a raccontare cosa ha significato percorrere quattromila chilometri in poco meno di quarantotto ore per portare in salvo undici persone dal nembo della guerra, per rispondere alla richiesta di una signora della mia città che chiedeva per le sue figlie e i suoi nipoti in cammino dall’Ucraina un porto sicuro prima e un passaggio verso la nostra Fano dopo, con la consapevolezza che una parte di me è ancora tra quelle strade e quei campi innevati con il bestiame al pascolo. 

Non racconterò dell’odore della guerra, che non ho sentito se non nelle piccole percezioni del caso, ma di come in tre amici abbiamo risposto a quella composta richiesta di aiuto, come composta e dignitosa è sempre la sofferenza di un popolo dalla cultura antica; di cosa ha significato attraversare la Slovenia, l’Ungheria bicipite e la Romania fino a Siret, a due chilometri dal confine con l’Ucraina, per riscoprire un’umanità che avevo personalmente smarrito, che non sentivo più di dover donare, che sentivo di aver perso tra la noia del benessere. 

La verità è che è l’occidente ad avere più volte dimostrato di non aver bisogno di umanità, se non il più delle volte funzionale alle personali autocelebrazioni da social; e parlo di quell’umanità che Pasolini sentiva sua nel bisogno di costruire un’identità capace di avvertire la comunanza di destino, distante dai vincitori volgari, dalla gente che conta, dai nevrotici del successo e dell’apparire.
 
Ripercorrendo con il pensiero quei giorni, devo ammettere che il vero viaggio è iniziato in Romania, poiché le autostrade che ci avevano accompagnato in Slovenia e in Ungheria difficilmente riuscivano a farci sentire lontano da casa. Come tutte le comodità finiscono inutilmente per unificare il mondo nei bisogni e nei contorni, cancellando quel poco di ricchezza rimasta nelle proiezioni della diversità, valore perduto insieme all’entusiasmo della scoperta.

Sono le poche strade della Romania invece, tra le cornici dei Carpazi e le case della Transilvania, tra la neve che incornicia i fiumi e i carretti trainati dai cavalli, ad avere un potere evocativo diverso da quanto visto fino ad allora. Cosa sia quella terra dagli spazi così apparentemente severi è difficile a dirsi, ho provato a scorgere al di là dei camini fumanti disseminati per quei villaggi, al di là degli sguardi delle persone che ci fissavano attraversare la loro gelida mattina, cosa fosse rimasto della Dacia e di Decebalo, di quelle terre dalle risorse salvifiche per l’impero di Roma, di quel regno capace di fermare le aquile di Domiziano, per arrendersi alla gloria e alle legioni di Traiano. 

Ho trovato però, tra le memorie lontane della storia, quel filo conduttore di quella grande cultura 
europea che già allora andava oltre il limes danubiano, che già allora violentemente distruggeva l’antico ordine ad Adrianopoli e si faceva strada prepotentemente settanta anni dopo fino ai Campi Catalunici. Guardare all’identità di questo continente è come guardare la terra dallo spazio, dove i confini sembrano improvvisamente soluzioni deboli e temporanee rispetto alla storia che lo rappresenta.

Così a 20 ore di distanza dalla partenza siamo arrivati nel cuore della notte in un magazzino nella campagna romena, dove un’efficiente macchina del volontariato stava raccogliendo da giorni centinaia di tonnellate di beni di prima necessità, tra vestiti, giocattoli e cibo, tutto destinato alla marea umana in arrivo.  Pochi minuti per poi dirigerci verso il vicino confine, per riempire i due van con quelle undici persone e ripartire verso l’Italia. Ed è proprio una volta arrivati lì, davanti al posto di blocco della polizia romena a guardia di quel passaggio, che per un attimo si ha avuto la percezione della guerra, di qualcosa di oscuro e sconosciuto che fosse al di là quei tre uomini in divisa che bloccavano il passaggio, oltre il buio gelido di quella notte romena.

Non si poteva andare oltre per ragioni di sicurezza, da lì a poche centinaia di metri ci sarebbe stato l’esercito a sbarrarci la strada; questo ci dice uno dei poliziotti in un italiano tanto claudicante quanto gentile nello sforzo di essere capito, il tutto però per farci capire e rassicurarci sul fatto che le persone che avremmo dovuto incontrare sarebbero state portate verso di noi da qualcuno direttamente dal campo profughi. E così è stato, in un furgone dei vigili del fuoco locali sono arrivate le donne e i bambini che aspettavamo.

Delle tante ore passate sulla via del ritorno, alternando la guida a piccoli momenti di sonno interrotti il più delle volte dagli scossoni che arrivavano in risposta alle strade romene, ricordo il silenzio, sordo ed in contrasto con la calma e la serenità che trasmettevano i nostri ospiti. Le difficoltà linguistiche creavano numerosi guasti nella comunicazione, facilitata solo nel trasmettere il bisogno delle necessità primarie. E in quelle piccole pause è arrivata l’umana risposta del popolo romeno alla vista di quei pulmini con la bandiera italiana ed ucraina, con la premura di rifornirci alle volte con di cibo e alle volte con delle bevande. Pochi attimi di una semplicità universale, utili però ad accendere quella speranza dimenticata di cui, cresciuti soddisfatti di quello che si è e sempre infelici per quello che si possiede, sentiamo probabilmente nel profondo di non averne più bisogno. 

E’ la vera Europa dei popoli, che andrebbe raccontata e tutelata nelle sue diverse forme e manifestazioni. Quell’Europa che difficilmente trova spazio in una società dei consumi dalla natura predatoria. 

E dalla lunga coda di macchine molte delle quali con targhe ucraine alla frontiera tra Romania e Ungheria, siamo passati alle più accoglienti arterie ungheresi e slovene, per arrivare poco dopo l’ora di cena sulle Alpi Giulie e da lì in Italia. Non c’è mai stato momento in cui, di fronte a quelle cime solenni, non mi sono soffermato sull’orgoglioso ricordo di quei poveri fanti d’Italia, sui miei bisnonni contadini del meridione che a fatica si facevano strada tra i reticolati dell’Asiago, così come altri sulla Somme e Verdun, così mentre Brusilov lanciava la sua offensiva. E’ ancora la storia d’Europa fatta di sacrifici e sofferenze, volutamente perduta e dimenticata insieme a quei giovani. 

Così, in piena notte, siamo arrivati a destinazione. E la tranquillità con cui si sono ricongiunte madri figlie, nonne e nipoti, non faceva pensare a persone in fuga dalla guerra, a giovani ragazze con i mariti rimasti al fronte, a bambini che forse non rivedranno più i loro padri. Non mi ha stupito a dire il vero, come non mi ha stupito il grande attaccamento di queste persone alla loro terra, alla grande nostalgia che già avevano a qualche giorno di distanza delle loro case, dai loro tempi, dai 
loro codici. 

E devo ammettere che aver preso parte ad una piccola macchina di solidarietà, piccola cosa di fronte ai bisogni di un momento simile, mi ha accompagnato nei giorni a venire da subito come il più dolce dei ricordi. E nell’avere da subito la certezza di una continuità assistenziale nel tempo per quelle persone, fondamentale passaggio per parlare e costruire un’accoglienza nella sua accezione più nobile e concreta, rimane il messaggio vero che un’esperienza simile chiede di trasmettere. 

Le sensazioni invece, uniche e alle volte difficilmente traducibili, sono il personale ricordo che conserviamo nel nostro percorso attraverso il tempo. 
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