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Ultima Generazione: la FGS incontra gli attivisti più discussi del momento

22/1/2023

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Che cos’è Ultima Generazione e chi siete voi?

JUHASZ: Ultima Generazione fondamentalmente è un qualcosa che a volte non è semplicissimo definire. In linea di massima, quello che posso dirvi è che siamo un gruppo di persone, un gruppo di cittadini accomunati dal fatto di aver preso atto della situazione attuale che riguarda la crisi climatica ecologica, cioè fondamentalmente l’insieme dei fattori che stanno mettendo a rischio le nostre vite, il nostro futuro, le nostre famiglie e un po’ tutto quello che abbiamo che abbiamo a cuore. Attualmente sappiamo che entro la fine del decennio un grado e mezzo d’aumento medio (della temperatura globale, n.d.r.) ce lo siamo giocati. Vuol dire un mondo in fiamme e scompensi impressionanti che stiamo già affrontando. Stiamo affrontando un finto inverno con dei picchi di più 10/15 gradi sopra la media stagionale in Italia e in tutta Europa, mentre nel frattempo c’è The day after tomorrow negli Stati Uniti. È impressionante quello che stiamo osservando. Sta fondamentalmente venendo messa sotto attacco lo spazio in cui si concretizza la nostra possibilità di vivere. Questo è effettivamente sotto attacco. Per questo spesso ci suona un po’ strano sentirci definire ambientalisti o attivisti. Qui si tratta di qualcosa che è strettamente legato, se non alla nostra sopravvivenza diretta, immediata, diciamo poco meno. Questa è la situazione e questa è fondamentalmente la realizzazione che ha fatto mettere insieme persone da tanti percorsi di vita di età diverse. Non siamo i giovani del clima.

[...]

Quello che stiamo facendo in questo momento, la scelta che abbiamo fatto, è di organizzarci per portare delle richieste concrete, semplici e fondamentalmente realizzabili al governo. Basterebbe diciamo, un po’ di serietà, di buona volontà, per quantomeno iniziare a discutere seriamente. 

Stiamo parlando di stop alle trivelle. Perché? Perché non c’è gas nell’Adriatico. Un anno di autonomia per il nostro Paese da estrarre in dieci, con investimenti da milioni di euro di soldi pubblici in delle infrastrutture obsolete. Una follia di propaganda autarchica che non ci serve a niente. 

Stop alle centrali a carbone. Dovevamo già farlo. Lo abbiamo promesso ai cittadini, alla comunità internazionale. La questione della crisi energetica viene utilizzata come una scusa per fare veramente di tutto. Sappiamo che gas ce ne sta al momento, che gira nel mercato ce n’è tantissimo. Quindi non prendiamoci in giro, non è il carbone la risposta. Iniziamo a parlare delle rinnovabili. Almeno venti gigawatt di rinnovabili da attivare nel 2023. Richieste relativamente semplici, non particolarmente ideologiche. Non chiediamo lo stop di tutto il fossile domani: sappiamo che sarebbe assolutamente impossibile. Quello che chiediamo è quello che è razionalmente necessario: iniziare ora a smettere di utilizzare, di andare a investire, in qualcosa che stiamo abbandonando. 

A cosa si ispira il movimento?

Questo approccio si ispira a Insulate Britain, un movimento che è nato qualche anno fa e che appunto in Gran Bretagna ha portato un centinaio di cittadini e cittadine a chiedere in strada, con i blocchi stradali, l’ammodernamento termico di buona parte dell’edilizia popolare inglese. Stiamo parlando di edifici che perdono il trenta percento del riscaldamento che viene immesso, cioè un terzo della bolletta. Un investimento mirato su quello avrebbe aiutato molto le famiglie a risparmiare energia e denaro, oltre al risparmio di emissioni, sarebbe stata una scelta strategica. 

[...]

Stiamo parlando di un qualcosa che poi procede fondamentalmente nel cercare di stimolare tutto l’ecosistema politico dall’interno. O perlomeno all’interno della preoccupazione nei confronti della crisi climatica ecologica. Faccio un po’ di attivismo, delle manifestazioni di un certo tipo, inizio a fare disobbedienza civile e poi in fondo ci sono quelli che bloccano il grande raccordo anulare in dieci. Noi ci siamo presi per un periodo questa responsabilità. Quello che speriamo di aver ottenuto è di aver aperto un po’ questo spazio, di “aver risucchiato” per osmosi altri movimenti che pian piano hanno preso coraggio.  
Abbiamo visto che la repressione arriva. Sappiamo che le nostre azioni hanno delle conseguenze e bisogna farci i conti. Stiamo parlando appunto di un processo per sorveglianza speciale che si è tenuto l’altro giorno a Milano e stiamo aspettando la sentenza che uscirà fra un mese. Stiamo parlando di processi per direttissima per danneggiamento aggravato al Senato, un modo che si sono inventati fondamentalmente per incastrarci. Poi magari ve ne parlerà Laura. 

PARACINI: Io insisterei sul fatto che è una cosa che va oltre l’ambientalismo. Ovviamente la gente ci definisce in questo modo, mi sembra normale. Il punto è che penso che molti di noi non si sentono né attivisti, né nel vero senso della parola ambientalisti. Io non sono ambientalista, non ho mai avuto tra i miei principali interessi l’ambientalismo, che non vuol dire ovviamente che non me ne frega niente. Il punto è che è una questione di vita. A questo punto esula il circolo più ristretto di ambientalisti proprio perché è qualcosa che non può più essere ignorato.

La crisi climatica, l’emergenza climatica è senza dubbio - mi fa ridere definirlo così - un problema. Perché non è un problema, noi stiamo vivendo un collasso climatico. Come si può definirlo un problema? È assurdo, perché è appunto un collasso eco climatico, l’emergenza più grande che dobbiamo affrontare ora come ora. Eppure non è percepito. Eppure, pur sapendolo ci comportiamo come se così non fosse, ed è un’alienazione veramente, ma veramente strana. Il nostro cervello è fatto per spostare, allontanare ciò che non riesce a metabolizzare, che è troppo grande. 

Però è anche vero che c’è la responsabilità di una classe politica e di conseguenza anche dei media, visto che in nessun modo questo argomento è trattato facendo percepire la reale urgenza. Se noi volessimo far arrivare la reale percezione dell’urgenza, se ci fosse la volontà avremo un popolo che sicuramente ha una concezione, una consapevolezza diversa. 
Torno a dire che non è più una questione di ambientalismo, non è più una questione di di attivismo, è una questione di vita. Io sentivo tanto il bisogno di stracciare questo velo di alienazione, perché è una psicosi collettiva quella che viviamo, il bisogno di verità perché non ce la fai più a fingere che tutto vada bene, perché non è così, semplicemente non è così. 

[...]

Ce lo dice tutta tutta la comunità scientifica. Veramente, chi ha ancora il coraggio di negare questo? Se continuiamo con queste politiche, continuiamo esattamente con questa stessa modalità, con la stessa rotta, entro fine secolo abbiamo due gradi e otto in più. In realtà è molto semplice la questione, bisogna solo prenderne consapevolezza e agire. E per fortuna che ho trovato Ultima Generazione, che secondo me sta veramente mettendo in atto una strategia, quella giusta, perché non si può continuare a chiedere la responsabilità delle persone, a credere che con la raccolta differenziata cambierà qualcosa. 
Le responsabilità sono politiche e lì va fatta pressione.

Il vostro movimento è fatto di soli giovani e nel caso se è un movimento di critica generazionale? Sulla scia di questo, la vostra critica è al sistema politico in generale oppure vi interessa solo esclusivamente il tema green?

JUHASZ: La questione penso si riassuma molto semplicemente andando a vedere alcune rappresentazioni, secondo me molto utili per quello che riguarda la crisi climatica ecologica, un qualcosa di veramente molto complesso, che ha mille sfaccettature. Ma quando si va a vedere questa ragnatela enorme di problemi, il problema al centro rimane l’inazione politica, che è un problema di democrazia. Se siamo qui qualcosa non ha funzionato e questo deve essere chiaro a tutti e tutte. Ma è questo, diciamo spesso, il momento in cui fai questo passo, che passi dall’essere il ragazzo che lotta per l’ambiente a un teppista verde. Nel momento in cui dici “dobbiamo proteggere l’ambiente che abbiamo un problema di democrazia”. È la seconda parte che ti rende pericoloso. Fondamentalmente perché stai puntando il dito sul fatto che se siamo qui qualcosa è andato storto, non ci siamo accorti che stavamo distruggendo il pianeta. È stato un insieme di omertà e interessi. Negli ultimi cinquant’anni il mondo occidentale ha vissuto penso il momento di prosperità forse più alto della storia dell’umanità sotto alcuni punti di vista. Questo chiaramente ha lasciato una serie di divisioni che conosciamo chiaramente. Però in linea di massima sappiamo che l’enorme progresso che c’è stato, almeno in parte, ha chiaramente spostato l’attenzione da qualcosa che si stava concretizzando, visto che ormai sono almeno trent’anni che è chiara la situazione e non è stato fatto niente. 

Effettivamente siamo qui perché qualcosa è andato storto. Stiamo provando di nuovo. È un qualcosa che segue immediatamente la realizzazione delle conseguenze. La storia italiana è estremamente problematica a livello politico, con alcuni episodi che io continuo a pensare - come il G8 di Genova - essere un qualcosa di cui dobbiamo continuare a parlare. In una maniera nuova, dobbiamo riconoscerlo come un momento che c’è stato, che ha avuto un impatto molto forte e da cui dobbiamo un po’ ripartire, perché è stato un muro di cemento che abbiamo preso e che ha impedito a una generazione di scendere in campo. Chi c’è stato è tornato traumatizzato, chi non c’era ha avuto paura. I risultati sono stati purtroppo vent’anni di alti e bassi, ma in generale di costante discesa per i movimenti in generale, così come per la sinistra in questo paese.

Domanda breve sul metodo. Gesti come il blocco del Grande Raccordo non mi sembra abbiano raccolto un grande sostegno, un aumento della consapevolezza generale. Al massimo abbiamo visto il grande odio verso la categoria ambientalista. Cosa rispondete? 

PARACINI: Innanzitutto io mi rendo conto che non è percepito l’aumento di consenso nei nostri confronti. Però noi dobbiamo crederci, perché vediamo quanto è piaciuto il movimento. Vediamo la mole di persone che scrivono e sono sempre di più. Ci ringraziano, sono veramente tantissime e crescono in modo esponenziale. Un numero sempre in aumento, soprattutto dopo l’azione al Senato - tra l’altro l’azione che ha avuto più visibilità. Quindi un insieme di persone che insultano, ma anche tantissimi che decidono di farsi qualche domanda in più e fare un’analisi più profonda del “guarda i vandali”. Le azioni al Senato sono quelle che hanno avuto la risonanza mediatica più grande e hanno quindi raccolto il maggior numero di persone. Quindi noi abbiamo già visto i risultati, abbiamo dei motori di ricerca che ci dicono che semplicemente la questione ambientalista ha raggiunto sempre più persone, trasmettendo quel sentimento di urgenza riguardo alla crisi climatica. 

Il punto è quando ci dicono “così non ottenete questo risultato, non ottenete ciò che volete ma al contrario fate allontanare la gente dal problema”. Ma che vuol dire “fate allontanare”? Ma non è che magari noi ci inseriamo in un sistema nel quale già persone se ne fregano del cambiamento climatico e probabilmente la maggior parte di loro continueranno a fregarsene? Invece puntiamo a quelle persone che evidentemente hanno gli strumenti per capire, chiedersi il perché dei gesti del genere. Insomma noi puntiamo sempre a una minoranza della popolazione. 

Anche se non si vedono da fuori, i risultati ci sono e si vede anche dal modo in cui questa questione è entrata nei media, nelle notizie, nei giornali. Poi il fatto che se ne parli sempre male mi sembra una reazione collaterale che è veramente difficile da evitare del tutto. Anche perché, ripeto, è bello fare le marce tutti insieme, fare le manifestazioni. Ma cosa ha portato? Se noi siamo arrivati qua, dopo quarant’anni di questo tipo di proteste, che hanno ottenuto? Allora è ovvio che uno si muove su strategie diverse. I risultati ci sono, continuano ad esserci e sono veramente centinaia e centinaia le persone, si sta creando un gruppo eterogeneo in tutta Italia. 

Se foste voi al governo, ipoteticamente parlando, cosa fareste di concreto dal punto di vista legislativo? E cosa provereste a fare dal punto di vista internazionale? 

JUHASZ: Sicuramente riprendere in mano quella che era la direzione imposta dai trattati internazionali. Quello che possiamo esprimere noi al massimo sono delle linee. Ok, sappiamo che va potenziato il trasporto pubblico e non quello privato. Chiaramente sappiamo che sarà, immagino, necessaria la riconversione di alcune industrie. Mi posso immaginare che dovremo cambiare il nostro rapporto con il cibo. Dovremmo cambiare il nostro rapporto con l’utilizzo dell’acqua a occhio e dell’energia. E questo è un grande lavoro. 

Io personalmente ho avuto la fortuna di fare servizio civile con la protezione civile. Se potessi, creerei immediatamente un enorme organismo di protezione della popolazione, penso che sarebbe un ottimo investimento. Stiamo per affrontare degli anni in cui veramente difficile immaginarsi la magnitudo di quello che potrebbe succedere. Ma di nuovo spesso ci dicono che siamo catastrofisti.

Noi possiamo dare delle linee. Chiaramente chi di noi ha le competenze, poi, per mettersi a pensare di guidare un paese? Io sicuramente no. A livello di democrazia una proposta potrebbe essere quella delle assemblee cittadine, ovvero assemblee composte da un campione rappresentativo della popolazione a cui viene esposta una qualsiasi questione (cita eutanasia e legalizzazione della cannabis) in modo più completo possibile.

Sul metodo e il dialogo con la politica:

MUSMECI: Allora prendo due punti: la classe politica criminale e la sensibilizzazione. Allora è vero che la volontà politica dipende da una volontà sociale. Il punto è che per noi, da un punto di vista metodologico, con questa classe politica criminale è imprescindibile confrontarci perché, a torto o ragione, tutta quella che è l’attività che può cambiare qualcosa passa a livello istituzionale. 

Abbiamo picchiato molto sull’ antipolitica, sull’idea che le istituzioni siano diventate sorde, mute, completamente scollegate da quelli che sono una serie di problemi gravi. Io su questo vi posso dare ragione, ma proprio per questo motivo il primo contenitore in cui vanno “iniettate” idee alternative ambientaliste è proprio il ceto e la comunità politica amministrativa - nazionale e internazionale - a cui si possono associare assolutamente, certamente, obbligatoriamente azioni forti. 

C’è un equivoco sul fatto che il riformismo sia un metodo noioso. Questo metodo non è noioso. Questo metodo è difficile e quindi viene percepito come noioso. Perché noi abbiamo un rapporto con la difficoltà che è conflittuale anche lì, di nuovo conflitto sociale. 

Il conflitto sociale molte volte è stato sterile. Penso allo statuto dei lavoratori. C’era un conflitto sociale, c’era una parte politica in Italia che voleva il conflitto sociale. Noi abbiamo preferito un coinvolgimento istituzionale e accademico per ottenere quel risultato. 

JUHASZ: Rispetto alla questione del dialogo con la politica noi stiamo effettivamente ricevendo alcuni momenti di contatto. Ad esempio quando Alessandro, uno dei nostri che ha preso parte della nostra campagna, ha fatto ventisei giorni di sciopero della fame prima delle elezioni chiedendo di parlare coi politici, non è sceso praticamente nessuno. Solo Bonelli e la Evi si sono degnati di scendere giù a sentire le richieste che stava portando avanti. Ma in generale è chiaro che un atteggiamento fatto di gesti eclatanti può rendere meno immediata la volontà di contatto. Dall’altra parte, noi siamo qui per parlare con la politica. La sensibilizzazione verso i cittadini è necessaria per fare numero, perché è necessario essere sempre di più. Ma il nostro obiettivo è dialogare con la politica. È chiaro che è necessario parlare con le istituzioni perché sono quelle che applicano il cambiamento. È la base su cui si fonda con la nostra teoria, approcciamo al dialogo in maniera non violentemente conflittuale.

Sull’energia nucleare:

JUHASZ: La questione nucleare è spinosa, nel senso che non esiste una risposta esatta. Ora possiamo metterci qui a discutere un sacco di dati. Il punto centrale rispetto al nostro approccio alla questione è che è una questione di medio-lungo termine. Nel momento in cui domani - parlo con nuclearisti - riuscite a far passare la possibilità reale del ricominciare a utilizzare l’energia nucleare e iniziassimo costruire le centrali ci vorrebbero almeno cinque o dieci anni per attivare la prima. Parliamo di qualcosa a medio-lungo termine, che a noi riguarda relativamente. Non siamo qui come Ultima Generazione per parlare di questo. È un dialogo veramente molto complesso. Magari fosse il nucleare la soluzione, ma veramente magari! Avremo la soluzione, anche se ho molti dubbi. Come ultima generazione però siamo lontani rispetto a questa questione, perché è un’altra scala temporale rispetto a quello che interessa a noi ora in questo momento. Stiamo cercando di chiudere quello che ci sta uccidendo. ​
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