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di Flavio Barbaro Il tema del welfare è dibattuto sin dalla sua creazione agli inizi del XIX secolo, e oggi di nuovo torna a far discutere di sé, anche grazie alle nuove misure di cui parla il Governo riguardo gli ambiti più importanti di questo, come la sanità e gli enti locali (per il primo è previsto un riordino normativo, per il secondo una bozza dell’atto di indirizzo), anche se molto spesso lo sentiamo sempre citato nelle sue forme più ampie, come gli “aiuti alle famiglie” e i “servizi al cittadino”.
Partiamo proprio da queste due ultime espressioni, cioè “famiglie” e “cittadino”. Sebbene la struttura lineare del welfare statale – dall’alto verso il basso – abbia i suoi grandi vantaggi e consenta una risposta unitaria a livello nazionale, ad un certo punto va incontro ad una necessaria ramificazione proprio nel livello in cui si trovano le famiglie e i cittadini. Questo non significa necessariamente invalidare il lavoro del sistema nazionale, ma significa prendere atto della necessità degli enti locali e dei presidi di questo sistema, che adesso invece prende il nome di welfare locale. L’esempio più semplice che possiamo fare comprende in realtà un problema complicato, come quello del divario nord-sud e dell’occupazione. Se prendiamo l’ultimo report trimestrale dell’Istat vediamo, ad esempio, che il Piemonte ha un tasso di occupazione del 67,1%, mentre la Campania del 44,4%, e se si scende ancora più nel dettaglio osservando i dati delle provincie arriviamo ad una grande variabilità, ed è chiaro come si renda necessaria un’intermediazione da parte di organismi che partecipino allo stesso obiettivo di benessere sociale, senza però far parte di quello schema lineare sopra citato. In poche parole: le scelte in materia di occupazione per la Campania non saranno le stesse per il Piemonte, così come se mettessimo a confronto la Campania con il 56,1% della Sardegna, la quale, pur rimanendo sotto il 60%, mostra dei tassi di occupazione differenti per maschi e femmine e diversi da quelli della Campania, per non parlare poi delle varie province. C’è bisogno quindi di un ente interlocutore e attore sociale che completi l’azione dello Stato nei contesti più piccoli, cioè quelli della comunità. La stessa definizione di comunità che possiamo dare include ciò: questa, infatti, non è una struttura esterna, ma il frutto di un denso rapporto tra cittadini e ambiente, tessuto economico e dinamiche territoriali, i quali elementi possono essere colti sia con un’azione coordinata delle varie osservazioni statistiche (oggi in Italia ancora in difficoltà nella sincronizzazione dei vari database per la comparazione, come abbiamo imparato dalle esperienze delle Aziende sanitarie in epoca Covid e i cavilli burocratici ancora presenti), sia con la partecipazione e la presenza sul territorio del Terzo settore. Gli organismi di cui parliamo sono infatti le associazioni. Secondo il report del 2021 del Forum Nazionale del Terzo Settore, dal 2015 le INP (Istituzioni Non Profit) sono cresciute dell’8,2%, mentre secondo Maurizio Carucci su Avvenire i giovani tra i 18 e i 19 anni partecipano ad associazioni non di volontariato per il 4,1%. Da questi dati proseguiamo il ragionamento in due modi: il mondo delle associazioni è in crescita (sebbene rallentando, poiché tra il 2019 e il 2020 abbiamo un incremento dello 0,2% contro lo 0,9% del biennio 2018-2019), mentre gli iscritti calano (5,5 milioni nel 2015 contro i 4,6 milioni nel 2021); da un punto di vista di età bisogna invece guardare non solo al dato citato prima dei giovani tra i 18 e i 19 anni, ma anche i giovanissimi tra i 14 e i 17 anni, che tocca il 6,4% per la partecipazione ad associazioni di volontariato. Nonostante le percentuali appaiano irrisorie, proprio in questi piccoli numeri giace il motore del Terzo Settore, poiché queste associazioni sono naturalmente gettate verso il futuro, e lo dimostra il fatto che l’86,0% delle INP del report prima citato operi nel settore dell’Ambiente, mentre il 54,6% dei volontari sia attivo nei settori della Cultura, dello Sport e della Ricreazione. Appare quindi chiaro come i giovani svolgano un ruolo fondamentale all’interno di queste organizzazioni, fondamentali non tanto per la creazione e la diffusione di servizi, quanto per il monitoraggio della comunità al servizio dei providers, fornendo l’indirizzo che queste attività e queste associazioni devono seguire. Il tessuto comunitario, o welfare neet nel caso in cui si parli di questi servizi, è molto variegato, e ne fanno parte non solo il lavoratore, ma anche lo studente, il pensionato o l’impresa, ed è quindi necessario che ci siano dei cuscinetti che raccolgano le istanze e agiscano sul piano cittadino e i giovani hanno dimostrato di saperlo fare. Tutto ciò non sfocia però nel civismo: mantenere un approccio distaccato e strettamente “civico” significherebbe tradire lo scopo primario di questo dialogo, cioè quello di fornire delle indicazioni che poi saranno utili a livello nazionale, e proprio qui si gioca una partita politica non indifferente, poiché da questo tipo di attività nasce l’indirizzo politico. I nostri interlocutori, in quanto cittadini, superate le associazioni del Terzo Settore, che con la loro attività sopperiscono in parte ai servizi e alle attività cittadine, nonché al tessuto sociale e partecipativo, diventano i partiti. Qualunque iniziativa nasca nel Terzo Settore, per diventare modulo e modello deve passare per la politica strettamente intesa. Allora significa che parlare di welfare di comunità è anche parlare di politica. Senza consultare i dati sulla partecipazione dei giovani alla politica (che non migliorano la situazione rispetto ai dati sull’associazionismo) possiamo dire che il nostro ruolo diventa fondamentale nel momento in cui riusciamo a prendere consapevolezza delle nostre problematiche, a rispondere con i mezzi delle associazioni, a comunicarle alla politica e a renderle dei moduli ripetibili ed efficaci, tutto questo prendendo delle scelte, anche per la nostra comunità. L’Università sembra aver colto questi segnali, inserendo sempre più corsi e attività che facciano riferimento a queste tematiche e formando su questi stessi principi. Possiamo anche parlare di sinistra. Una tematica che si lega a doppio filo con il welfare di comunità è sicuramente la democrazia partecipativa, la quale diventa uno strumento fondamentale per perseguire gli obiettivi di collaborazione e solidarietà che creano il concetto di welfare di comunità. Quando si parla di “scelte” si parla proprio di questo: scegliere quale forma deve avere il proprio Comune o il proprio territorio sulla base della forma di dialogo che vogliamo istaurare tra di noi e delle tematiche da affrontare. Le nuove frontiere del welfare comprendono sicuramente tematiche care ai giovani, che riconfermano così il loro ruolo innovatore: il benessere psicologico, sempre più pesante nel dibattito sul sistema scolastico; le opportunità di orientamento lavorativo e universitario; l’aggregazione e la socializzazione nel mondo della società liquida. La sinistra e il socialismo in generale in questo possono svolgere dei ruoli fondamentali, ponendo le basi ideologiche – necessarie, poiché altrimenti non avremmo nessun livello nazionale con cui collaborare – che guidino l’attività e forniscano il fine ultimo non solo dell’attività, ma del dialogo stesso. Non possiamo permetterci di lasciarci sfuggire dalle mani e lasciare ad altri la frase “stare bene, tutti”.
1 Commento
Giovanni
26/4/2024 13:44:31
È vero le associazioni drl Terzo settore riescono a sopperire in molti casi al non funzionamento dei servizi gestiti da comuni o regioni.Troppo spesso sono anche viste come intralcio alle attività dei rispettivi governi. Ora che sono stati istituzionalizzati cè bisogno di trovare un modo per renderli partecipativi alle decisioni di governo.
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