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Giulia Cavallari- Giovane Avanti! Bologna La campagna elettorale americana è ormai entrata nel vivo e ancora una volta i due maggiori candidati sono Trump e Biden e si sfideranno in queste primarie e quasi certamente alle presidenziali.
Dalle ultime elezioni presidenziali americane è cambiato in maniera profonda l’assetto geopolitico del mondo intero e in particolare quello dell’Europa dell’Est e del Medio Oriente. Negli ultimi due anni abbiamo assistito all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e di cui ‘ricorrono’ i due anni, abbiamo visto acuirsi lo scontro tra USA e Cina e si pensava che l’asse di quella che fu la Guerra Fredda si sarebbe spostato verso la Cina, ma nel momento dell’invasione da parte della Russia i fronti sono diventati due: uno USA-Russia, ma anche USA-Cina perché la Cina non ha mai condannato espressamente l’invasione dell’Ucraina e da alcuni anni è in atto uno ‘scontro a distanza’ anche a colpi di diplomazia tra queste due potenze. Ma i temi che i candidati presidenti e poi il presidente eletto dovranno affrontare non riguardano solo la politica interna americana, ma i diversi fronti infiammati dall’Ucraina (e quindi la Russia) al Medio Oriente al terribile conflitto israelo-palestinese. Le primarie con cui il partito repubblicano sta scegliendo il candidato alle elezioni del prossimo novembre sono ormai entrate nel vivo. Il 5 marzo 15 dei 50 Stati americani andranno al voto ed è in questa occasione che si deciderà chi si sfiderà per le presidenziali di novembre. Già diverse volte, durante i comizi, Biden ha attaccato Putin, mentre Trump si è addirittura ‘paragonato’ a Navalny (morto pochi giorni fa in una sperduta colonia penale oltre il circolo polare artico). Anche questa volta sulle elezioni presidenziali americane aleggia l’ombra della Russia e ancora una volta l’attenzione sarà catalizzata sulla minaccia che essa può rappresentare. Inoltre, il rischio di un Trump 2 mette in agitazione l’Europa e le sue istituzioni proprio alla luce delle parole che Trump stesso ha pronunciato contro la NATO e di fatto contro gli Stati europei quando ha affermato che “avrebbe incoraggiato la Russia ad invadere gli alleati NATO” che non avessero raggiunto i 2% del PIL di spesa di ogni Stato membro UE (il 2% del PIL per la difesa è stato fissato dall’Alleanza). Chiaramente queste parole di gravità inaudita hanno avuto eco profondo in tutto il vecchio continente mettendo in allarme le cancellerie europee per il peso che quelle parole potrebbero avere soprattutto in un periodo in cui compito dell’Unione Europea è quello di supportare con pacchetti di aiuti militari l’Ucraina che da due anni è costretta a difendersi a causa dell’invasione russa. Ancora una volta la campagna elettorale sarà costellata di propaganda e di fake news (terreno fertile per Trump) ma che altereranno ancora di più un dibattito elettorale già fortemente inasprito da un Trump vendicativo (e anche sotto inchiesta). Qualora Trump dovesse vincere le elezioni, il mondo avrà di fronte un Presidente americano ancora più estremista del primo Trump già ampiamente conosciuto, ma soprattutto- viste anche le dichiarazioni che aveva fatto- di voler raggiungere un ‘accordo di pace’ con la Russia di Putin per porre fine alla guerra scavallando però, nei fatti, l’Unione Europea e l’Ucraina stessa. Chiaramente anche in Europa c’è chi sostiene Trump, ma è una netta minoranza rispetto alle idee prevalenti nella maggioranza delle forze politiche degli Stati membri UE con la piena consapevolezza che un suo ritorno alla Casa Bianca potrebbe rappresentare per l’Europa un grande problema politico (e non solo). Le preoccupazioni dell’Europa e in particolare dell’Ucraina sono legate alle idee trumpiane, ma questa situazione è più preoccupante per Kiev perché Trump potrebbe ritirare il sostegno americano all’Ucraina con il rischio di farla cadere nelle mani della Russia. L’ex presidente francese, Hollande, ha dichiarato a Politico che “L’Europa deve essere pronta ad affrontare qualsiasi situazione legata ai risultati delle elezioni americane”. Trump, nonostante le inchieste in corso, prosegue la sua corsa vincendo le primarie anche nel South Carolina contro la sua sfidante Nikki Haley e in questo modo sta cercando di rafforzare la sua base elettorale. Ma è sempre il solito Trump, quello dell’estremismo, delle offese, delle prese in giro. Alla Conservative Political Action Conference (CPAC, la più grande manifestazione dei repubblicani che si tiene ogni anno negli USA) Trump ha iniziato il suo discorso insultando Biden affermando “Il corrotto Biden ha abolito il confine, decimato la classe media, aperto le porte a caos e violenza. Ma vi avverto: se vince nel 2024 il peggio deve ancora venire. Il nostro Paese sta crollando a livelli inimmaginabili. […]. Il presidente più incompetente nella storia degli Stati Uniti, che ci sta portando ad essere sconfitti nella Terza guerra mondiale”. Sono alcune delle ‘fiammanti’ parole pronunciate dal palco della CPAC e che danno il senso della (non) misura di Trump che è considerato, nei sondaggi, in netto vantaggio. Inizialmente il suo sfidante doveva essere Ron De Santis poi ritiratosi dalle primarie prima del voto nel New Hampshire e dopo il risultato deludente delle primarie in Iowa. Il ritiro di De Santis ha, di fatto, lasciato sola la Haley, la quale ha più volte ribadito, che nonostante il secondo posto, non intende ritirarsi dalla competizione elettorale perché in questo momento rappresenta una alternativa a Trump, ma proprio nel “suo” New Hampshire ha subito una pesante sconfitta. Tuttavia la Haley viene considerata una moderata, ma lo è rispetto a Trump pur essendo una conservatrice repubblicana. Il ritorno del Tycoon sembra ormai possibile nonostante i processi in corso. La politica trumpiana incarca il repubblicano medio, incarna quella parte di elettorato dell’America profonda, di quelle folle ‘ultrà’ che avevano assaltato il Campidoglio il giorno del giuramento di Biden. È quell’America lontana dalle grande metropoli, dal sogno americano. Questa parte di America consentì a Trump di vincere nelle precedenti presidenziali. Anche questa volta saranno determinanti? Molto probabilmente si, è la la sua base. Il prossimo Presidente USA dovrà anche affrontare il delicato dossier sulla Cina e su Taiwan. Sul fronte politica estera gli attriti tra Cina e Usa sono sempre evidenti, come se fosse una nuova guerra fredda. La Cina è contro Taiwan, gli USA sono pro Taiwan. Basta questa contrapposizione a far irrigidire i rapporti tra questi due colossi. È proprio Taiwan ad essere l’ago di una bilancia che potrebbe sbilanciarsi da un momento all’altro e che un suo sbilanciamento potrebbe rappresentare un punto di non ritorno sul piano dei rapporti di politica estera e proprio per questo motivo l’argomento “Taiwan” è al centro di ogni incontro tra Biden e Xi Jinping anche perché non è così remota l’ipotesi di un conflitto, ma chiaramente stiamo parlando dello scenario estremo che è anche quello più grave, ma anche notevolmente costoso per entrambe le potenze. Nel novembre 2023 Biden e Xi Jinping si sono incontrati a San Francisco. Un vertice per evitare che le due potenze arrivassero ad uno scontro. Ma anche il Segretario di Stato Blinken e il ministro degli esteri cinese Wang Yi si sono incontrati durante la Conferenza di Monaco sulla sicurezza a dimostrazione di come tra i due Paesi vi siano dei segnali di dialogo anche su temi che rappresentano il ‘cuore’ dello scontro tra due potenze. Gli USA sono divisi tra chi punta al raggiungimento di un accordo o di un compromesso e chi invece propenderebbe per un attacco preventivo per mostrare ‘la forza ‘ americana. Il 2023 è stato l’anno in cui le due potenze sono arrivate ad un vero e proprio inasprimento dei rapporti sul fronte della politica estera con reciproci scambi di accusa fino a far presagire una rottura e quindi possibili ostilità. Oggi sono queste due potenze a contendersi un primati a livello economico, ma soprattutto a livello tecnologico anche perché la Cina, nell’ultimo anno, ha subito- a livello economico-una battuta d’arresto con un rallentamento del PIL. Due potenze che rischiano uno scontro armato, ma soprattutto gli USA che mai lasceranno che la Cina raggiunga il loro livello e che quindi si posizioni sullo stesso piano dell’America. Se non sarà (come si spera) uno scontro armato potrebbe essere uno scontro cyber-tecnologico perché Pechino e Washington hanno posizioni contrastanti anche sul piano tecnologico con gli USA che adottano una linea offensiva e la Cina una linea difensiva. Si parla di sanzioni commerciali, di guerra dei microchip e Taiwan rientra ‘a pieno titolo’ in questo scontro perché come scrive Paolo Pagliara, “In Italia pochi comprendono l’importanza che Taiwan riveste nello scontro tra Stati Uniti e Cina per la leadership del XXI secolo. Eppure quest’isola poco più grande della Sicilia, di appena ventitré milioni di abitanti, che produce i microchip più avanzati del mondo ed è circondata da acque dove transitano migliaia di miliardi di dollari di merci all’anno, suo malgrado potrebbe innescare la scintilla della Terza guerra mondiale: la tempesta perfetta ha qui il suo occhio del ciclone” (La tempesta perfetta). Il prossimo presidente americano avrà l’arduo compito e onere di evitare un acuirsi di una tensione che potrebbe sfociare in uno scontro armato, ma nel contempo gli USA stanno potenziando il sostegno a Taiwan. Il candidato alla presidenza degli USA che risulterà vincitore dovrà evitare che anche nell’area dell’Indo-Pacifico scoppi un conflitto armato e cercare di evitare questo esito, ma quel che sarà certo è che la competizione tra due potenze continuerà, ma in un ‘teatro’ in cui bisognerà affrontare altri teatri di guerra che stanno causando- se si pensa al Medioriente- una instabilità ancora maggiore di quella che hanno causato i due lunghi e devastanti anni di guerra tra Ucraina e Russia.
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di Fiammetta Freggiaro Con le elezioni europee alle porte, si fanno sempre più densi i tentativi di accordo da parte dei piccoli partiti: tra questi, protagonista tanto interessante quanto discusso è Azione di Carlo Calenda. Dopo il fallimento del Terzo Polo, la sfida appare importante: superare la soglia dello sbarramento fissata al 4%. E allora, quando il gioco si fa duro, occorre capire come muoversi al meglio.
L’inizio, in questo senso, è stato promettente: “Le elezioni europee saranno fondamentali per il nostro Paese e per l’Europa, perché tutto l’Occidente è sotto attacco dall’esterno e dall’interno. Populisti e sovranisti vogliono l’Unione debole e divisa. Noi la vogliamo forte e coesa. Vogliamo finalmente gli Stati Uniti d’Europa”. Queste le parole pronunciate, a gennaio, da Calenda per il lancio del progetto “Siamo Europei”. L’obiettivo? Dialogare e confrontarsi, “costruire un’area che raduni le componenti liberal – democratiche, repubblicane, popolari, liberal – socialiste, riformiste” per “superare l’attuale schema bipolare”. Ultimo, ma non per importanza, intercettare il voto delle nuove generazioni. Si tratta di un passaggio degno di nota, benché sottile: stando a quanto dichiarato, Azione intende dettare l’agenda politica spiegando agli elettori l’importanza del voto e della rappresentanza delle istanze collettive nell’emiciclo parlamentare di Bruxelles. Nonché elaborare delle strategie di comune risoluzione. Fatto, questo, non di poco conto, considerando l’operato di altre forze politiche, vale a dire l’accalcarsi nel toto nomi prima delle presentazione delle liste. Cercando, quindi, di replicare la performance ottenuta in occasione delle ultime elezioni politiche – quelle che, secondo SWG, hanno visto un buon 10% degli elettori di età compresa tra i 18 e i 34 anni sposare l’anticonformismo di Calenda e Renzi – nel mese di febbraio è arrivato l’accordo con Nos, il media – partito fondato da Alessandro Tommasi. Nella stessa direzione, menzioniamo anche la federazione con i Repubblicani europei, il Partito Repubblicano Italiano e l’associazione Popolari Europeisti Riformatori. Così come l’impegno, di lungo corso, volto all’ottenimento del diritto di voto per studenti e lavoratori fuorisede. Oggi, però, la posta in gioco appare decisamente più elevata: occorre valutare la convenienza politica – o meno – di un eventuale accordo con Italia Viva e +Europa. Ma, soprattutto, quanto il nome del leader di Azione possa incidere sulle prossime espressioni di voto. Il rischio, in ogni caso, è ampio: rimanere isolati oppure trovare un accordo e allearsi, ma perdere di credibilità nei confronti degli elettori. Indubbiamente, l’eventuale intesa con Renzi non desterebbe affatto scalpore: entrambi per tempo si sono posti sulla scena politica in un’area – quella del centro – decisamente affollata, quanto contesa. D’altro canto, proprio Italia Viva è stata fonte di non poche diatribe, implose con il fallimento del progetto comune. Stando ai molti che intendono il leader di Italia Viva “bruciato”, rispetto a valore e pregnanza, l’intesa con Renzi non sarebbe vantaggiosa per Azione. E questo nonostante l’intento sia ben definito: aprire le porte indistintamente a destra e a sinistra, con l’unica clausola di mantenere saldi alcuni punti fermi. Sotto questo punto di vista, dunque, appare molto più favorevole, almeno sulla carta, l’intesa con Emma Bonino. Il cui partito ha fatto degli “Stati Uniti d’Europa” una vera e propria bandiera. Sviscerato questo primo aspetto, occorre dedicare qualche parola alla questione della candidatura del leader: il fatto che quest’ultima possa fungere come catalizzatore semplice e immediato – in quella nota come era della personalizzazione della politica – ci sono pochi dubbi. Il problema subentra con la consapevolezza che, nel nostro Paese, la carica di europarlamentare è incompatibile con quella di parlamentare e di capo del Governo. Difatti, nel pieno rispetto della suddetta normativa, Calenda ha finora optato per la rinuncia alla candidatura. Anche in questo caso, assumendosi una chiara responsabilità: la piena trasparenza nei confronti degli elettori. Argomento, questo, usato come arma contro le rivali Meloni e Schlein, rispetto a cui vige invece una zona d’ombra circa l’eventuale corsa alle europee. Impossibile, ad ora, dire se le scelte e le strade intraprese da Azione siano effettivamente quelle vincenti. Soltanto lo scorrere del tempo, unito al presunto dialogo con Renzi e Bonino, potrà svelare l’esito di questo complesso intrigo politico. Nel frattempo, consapevole del rischio oblio e dell’importanza dei voti, Renzi corre ai ripari: recentissima è l’intesa con la Nuova Democrazia Cristiana e la lista unica – “di scopo”, così ribattezzata da Riccardo Magi – tra Italia Viva e +Europa. La leader Emma Bonino dovrebbe candidarsi come capolista nel Nord Ovest, mentre l’ex premier fiorentino si dice pronto a fare spazio ad alcuni valorosi cadetti. Azione, nel bel mezzo di questo calderone infuocato, ribatte mantenendo il veto, “no ad accozzaglia che include Renzi, Cuffaro e Cesaro”. Piena disponibilità, quindi, soltanto nei confronti di Bonino. Una cosa è certa: la linea inaugurata da Calenda può dirsi abbastanza insolita nel panorama italiano, finora conosciuto. Quello in cui le elezioni europee sono ripetutamente svilite ad elezioni di secondo ordine, peraltro contraddistinte da contenuti indici di affluenza alle urne. Alessandro Picarone Giovane Avanti! Napoli Nel terzo millennio la contrapposizione tra ricchezza e povertà ha toccato le corde di gran parte di noi: senza dubbio, la cosiddetta terza rivoluzione industriale ha contribuito a uno sviluppo economico particolarmente accentuato, ma ha anche favorito la concentrazione di ricchezze nelle mani di un numero sempre minore di persone, aumentando così le diseguaglianze sociali ed economiche.
La povertà è un fattore multidimensionale, tiene cioè conto di opportunità culturali, scolastiche e formative, di relazioni sociali, tutte correlate tra di loro: secondo il rapporto di Save The Children “Nuotare contro corrente - Povertà educativa e resilienza in Italia” (p.5) il 12,5% dei minori (fonte ISTAT 2016) “vivono in condizioni di povertà assoluta. I bambini delle famiglie più povere hanno, rispetto ai loro coetanei, una maggiore probabilità di fallimento scolastico, rischiano in misura maggiore di lasciare precocemente la scuola e di non raggiungere livelli minimi di apprendimento”. Inoltre, la mobilità sociale è decisamente statica, cioè c’è una minima possibilità di miglioramento da una generazione all’altra: la simulazione presente nel report “A Broken Social Elevator? How to Promote Social Mobility” indica che in Italia, a una persona che viene da una famiglia povera (ultimo decile di reddito) sono necessarie mediamente 5 generazioni (4,5 la media OCSE, 2 in Danimarca e 7 in Ungheria) per raggiungere il reddito medio. Le difficoltà si manifestano ancora più prepotentemente in Africa: anche lì a risentirne sono i bambini, la cui condizione è ancora più tragica che in Europa. Solo per un singolo, tremendo, esempio va ricordato come decine di migliaia di minori lasciano la scuola, senza completare nemmeno il ciclo di studi obbligatorio, per essere impiegati nella estrazione artigianale e di piccola scala del cobalto nella Repubblica Democratica del Congo. Poste queste premesse, la più logica conseguenza sarebbe portare alla globalizzazione dei diritti, una sorta di internazionalismo dei diritti: d’altronde, finché esisteranno zone franche da ogni tutela fondamentale, nelle quali si lavora in condizioni di sfruttamento e di povertà, non è possibile ipotizzare la presenza di tutele condivise. È per questo che, negli ultimi anni, sta emergendo il tema della Corporate Social Responsability: preso atto del fatto che l’approccio volontario non si è rivelato sufficiente, anche per conferire una legislazione unica e non frammentaria in materia di due diligence, da qualche mese, se ne sta occupando anche la Commissione Europea, ma la direttiva non è stata ancora approvata, al momento in cui si scrive, e anzi, sfumato recentemente il voto, le trattative proseguono. L’obiettivo dichiarato della direttiva è, in origine, quello di promuovere un’economia globale equa e sostenibile, mirando a escludere, ad esempio, il lavoro minorile, il lavoro forzato, la protezione della salute al di sotto degli standard, la retribuzione inadeguata, le violazioni della legge o i danni ambientali evitabili nella creazione di valore delle aziende europee. Difatti, il problema non è solo la povertà, ma anche lo sfruttamento dei lavoratori e il degrado ambientale (si pensi ai rare-earth elements), che restano gli anelli deboli delle catene di approvvigionamento delle imprese europee. Per delimitare l’ambito di applicazione della direttiva (almeno nelle proposte finora conosciute), si deve fare riferimento a due fattori su tutti: il fatturato (a seconda se la società abbia sede in UE o sia al di fuori o, per queste ultime, se almeno il 50% del fatturato netto mondiale è stato generato nei settori ad alto rischio) e i dipendenti (500 per le società con sede in UE, 250 per quelle definite ad alto impatto, cioè: industria tessile, mineraria e agricola). Le PMI non sembrano essere, per ora, direttamente coinvolte nel campo di applicazione della proposta, tuttavia potrebbero essere indirettamente interessate dalle nuove regole come risultato dell’effetto delle azioni delle grandi imprese attraverso le loro catene di fornitura. Le aziende avrebbero dovuto, poi, sviluppare un piano strategico d’azione di prevenzione e verificare la conformità delle misure adottate con i partner commerciali, dovendo astenersi dall’intraprendere nuovi affari con eventuali partner cosiddetti problematici (sospendendo o terminando la collaborazione commerciale a seconda della gravità dell’impatto negativo). In realtà, la due diligence, per essere efficace, dovrebbe essere integrata nelle politiche e nei sistemi di gestione aziendali, con modalità di segnalazione dei reclami, cui tutti lungo la filiera possono accedervi, e l’adempimento agli obblighi dovrebbe essere monitorato e comunicato in modo trasparente. Il condizionale è d’obbligo, perché tutto è ancora da definire meglio, stante una nuova fase di trattative a causa dei diffusi malumori nel mondo delle industrie: in Germania, a opporsi è il partito tedesco FDP, maggiormente favorevole alle imprese (a Berlino, in realtà è in gioco anche l’equilibrio politico nella coalizione di governo tra verdi, socialisti e liberali, resta da vedere se avrà conseguenze sulla tenuta del governo). Anche le grandi associazioni industriali europee (come in Italia Confindustria) si sono messe di traverso e schierate duramente contro il testo: le contestazioni sono tutte riconducibili a timori per gli svantaggi competitivi dovuti dall’eccessiva regolamentazione e dagli oneri ritenuti troppo pervasivi che incideranno, negativamente, sulle imprese che hanno già patito a causa della pandemia. In realtà, giova ricordare che in Italia la pandemia ha peggiorato la già grave situazione di povertà delle persone: secondo l’elaborazione “Con i Bambini su dati Istat”, il 13,4% di under 18, nel 2022, vivono in povertà assoluta (nel mezzogiorno l’incidenza sale al 15,9%). In ogni caso, la presidenza belga del Consiglio dell’Ue, dopo aver accertato che l’Italia si sarebbe astenuta, così accodandosi alla Germania – oltre ad altri Paesi come Austria e Finlandia – ha preferito non procedere al voto, mancando la maggioranza qualificata per approvare il provvedimento, e rinviarlo a data da destinarsi, prendendosi il tempo di tentare un’ulteriore opera di convincimento. Resta da vedere cosa succederà, ma urge un’inversione di rotta sia sotto il profilo della povertà sia sotto il profilo della transizione ecologica. Marco Cappa, Giovane Avanti! Roma Il mondo sta cambiando, in tutti gli ambiti: riscaldamento globale, nuove guerre, migrazioni di massa, rivoluzione digitale e tanto altro. In questo putiferio fatto di innovazioni, che se non domate a dovere potrebbero dare ragione a chi denuncia la loro pericolosità, anche la politica deve cambiare. E quale migliore occasione se non le europee di questo giugno?
Ne abbiamo avuto un esempio perfetto noi italiani, quando a settembre di ormai due anni fa il Parlamento veniva conquistato da forze di destra che di moderato hanno poco. Ciò comportò una serie di cambiamenti che distrussero la politica per come la conoscevamo fino a quel momento: il dominio governativo del PD è finito rovinosamente, costringendolo a ricercare una linea più decisa verso sinistra; il potere, più culturale che politico, di Silvio Berlusconi si è scontrato contro l’iceberg post-fascista della Meloni; abbiamo visto consolidarsi un grande partito conservatore, termine che fino ad allora era confinato negli ambienti monarchici, e un nucleo, seppur diviso, di partiti liberali. Una tale mole di fattori ed eventi non poteva non condizionare anche la politica europea. Oggi quando le testate straniere parlano del Presidente del Consiglio italiano non vediamo elogi e speranze, come accadeva durante il governo Draghi, ma continue denunce nei confronti di una deriva estremista e pericolosa. Oggi a Roma, nei pressi di Via del Corso, la principale arteria turistica e politica della capitale, aleggia un’entità nera che con i suoi occhi scruta Bruxelles. Ed è proprio nella capitale belga, che di fatto lo è anche della UE, che sembra consolidarsi un’idea abbastanza ambigua: una commissione continentale di destra. Infatti, ciò che ha portato la famiglia del Partito Socialista Europeo, il principale avversario del centro-destra europeo, a riunirsi a Roma il 2 marzo è stata proprio questa prospettiva. Nella capitale di una nuova frangia politica estremista, quella dell’ECR (Conservatori e Riformisti Europei) che come Presidente ha Giorgia Meloni, vediamo eletto all’unanimità il candidato socialista per la Presidenza della Commissione: Nicolas Schmit. Quello che Politico.eu ha definito un “signor nessuno”, e che è stato accolto con applausi scroscianti dal pubblico presente al Centro Congressi la Nuvola dell’EUR, è in realtà un politico di lunga data. Nato a Differdange, una cittadina del Granducato di Lussemburgo, Schmit ha sempre avuto un’inclinazione naturale verso la politica. Da giovane, nel pieno degli anni ‘60, frequenta gli ambienti della sinistra studentesca lussemburghese. Dopo essersi laureato in economia, entra nell’apparato statale mediante il mondo diplomatico e diversi ruoli in staff politici. Per la prima volta, nel 2009, viene nominato Ministro del Lavoro del Lussemburgo sotto i governi Juncker e Bettel. Dopo aver terminato due mandati nel 2018, viene eletto al Parlamento Europeo. Lì entra a far parte della Commissione del Lavoro e degli Affari Sociali. Il suo impegno come Commissario è interamente volto verso due punti fondamentali: la creazione di un salario minimo europeo e la regolamentazione del lavoro sulle piattaforme digitali. Entrambe battaglie che qui in Italia sono comuni all’intero centro-sinistra, a prescindere dalla collocazione europea. E il programma dei socialisti per le elezioni di giugno non è da meno, tra i punti principali troviamo: il rafforzamento dell’Autorità Europea del Lavoro, per far fronte alla disoccupazione e all’esclusione sociale; norme più severe in materia d’appalti e fondi comunitari; tassazione degli extraprofitti delle grandi aziende europee; il contrasto ai paradisi fiscali, per assicurarsi che i ricchi paghino le tasse all’interno dei confini comunitari; un piano continentale per l’edilizia sociale; l’ammissione di Romania e Bulgaria all’interno dell’area Schengen; contrasto alle discriminazione xenofobe, omofobe e abiliste nei singoli paesi; assicurare l’assistenza legale ai migranti; e soprattutto il rafforzamento, in chiave sociale, del Green Deal, l’imponente piano UE per la conversione ecologica di tutti i paesi membri. Ad oggi, come in realtà accade fin dai primi giorni della svolta parlamentare europea in chiave democratica ed universale, i socialisti sono gli unici che possono ambire a sconfiggere i popolari. Nei fatti, Schmit è l’unica alternativa alla Von Der Leyen, l’attuale Presidente della Commissione UE. Insomma, a Roma, lo scorso 2 marzo, si è deciso il futuro del centro-sinistra europeo: se non vogliamo vedere neanche l’ombra di un’alleanza EPP-ECR, popolari e neofascisti, bisogna prendere in considerazione di unirsi sotto il nome di Schmit. A detta di chi scrive, dovremmo una volta per tutte mettere da parte le nostre divisioni, dato che la sinistra italiana va dal PSE al gruppo Left (la formazione europea che raccoglie i partiti post-comunisti). La colpa della scalata politica di personaggi come Meloni e Le Pen è solo nostra, loro hanno visto lo spazio causato dalle nostre fratture e ci si sono infilati. di Giulia Cavallari Abbiamo intervistato l’Onorevole Lia Quartapelle, Vicepresidente della Commissione Esteri alla Camera dei Deputati sulle ultime vicende in tema di politica estera dall’Ucraina, alla Russia al voto per la missione “Aspides” alla drammatica situazione nella Striscia di Gaza.
1. Onorevole, lei recentemente è stata in Ucraina, dopo due anni di guerra e un Paese devastato, qual è l’umore dei cittadini ucraini e quali sono le sensazioni (anche delle cancellerie europee)? Due anni dopo l’inizio dell’invasione di larga scala e dieci anni dopo l’annessione della Crimea, l’Ucraina continua a resistere. Putin ha fallito e ha già perso. Per l’Ucraina, nonostante le difficoltà e la stanchezza, ci sono tante ragioni per sperare e combattere per una pace giusta e sicura. In questi due anni, l’Ucraina ha riconquistato il 56% del territorio invaso; ha riaperto la navigazione sul Mar Nero e esporta tanti prodotti agricoli quanto prima dell’invasione; ha iniziato il percorso di adesione all’UE. C’è una capacità di resistere e costruire un futuro diverso che dall’Italia e dall’Europa va sostenuta con convinzione. 2. Onorevole, Lei insieme all’on. Della Vedova e al sen. Scalfarotto avevate fatto richiesta per ottenere il visto da parte dell’Ambasciata russa per recarvi ai funerali di Navalny. Da quel giorno più nulla, nel senso né un diniego né una concessione del visto. Ma i vostri passaporti sono ancora lì. Qual è, in termini di politica estera, il significato di questa vicenda che coinvolge dei parlamentari della Repubblica? Settimana scorsa insieme all’on. Della Vedova e al sen. Scalfarotto abbiamo fatto richiesta al consolato russo a Roma di un visto per poterci recare a Mosca ai funerali di Alexey Navalny. A distanza di 10 giorni, ben oltre i limiti previsti dalla legge, stiamo ancora aspettando un diniego o la concessione del visto. Questa vicenda purtroppo dimostra per l’ennesima volta quanto oggi in Russia non ci sia alcuno spazio per chi vuole visitare il Paese o capirne il suo popolo, ma solo per chi va ad omaggiare Putin. La mancanza di libertà di espressione e di valori democratici nella Russia di Putin è purtroppo una realtà che conosciamo da anni, e che negli ultimi due anni di invasione ingiustificata in Ucraina sembra essersi anche intensificata. Per questo è importante continuare a denunciare quello che succede e sostenere chi ha il coraggio di dissentire contro Putin in Russia ma anche nel nostro Paese. 3. Il contesto geopolitico dall’Ucraina al Medio Oriente impone profonde riflessioni, ma soprattutto, questo sarà un anno di elezioni dalle Europee alle Presidenziali USA. Quali rischi si corrono con le destre in Europa e Trump negli USA a livello di future decisioni geopolitiche? La popolarità crescente delle destre in Europa e l’ipotetica amministrazione Trump negli Stati Uniti sollevano preoccupazioni su diversi fronti. L’ideologia trumpiana come quella dell’AFD tedesca o di Vox in Spagna portano avanti delle retoriche divisive che minano la coesione sociale e la solidarietà, e minacciano i valori fondanti della democrazia. Ma queste ideologie creano problemi anche a livello dì cooperazione internazionale, oltre che a livello domestico. Penso ad esempio alla recente dichiarazione di Trump sui Paesi europei che non devolvono il 2% del Pil nella produzione di armi e che quindi non e poi da biasimare un paese come la Russia in caso decidesse di aggredirli. Se da una parte questa sua uscita possa essere facilmente derubricata a una solita esagerazione trumpiana senza capo né coda dall’altra solleva un dubbio e un tema non da poco conto. Nello scenario in cui il prossimo presidente americano fosse nuovamente Trump e lui decidesse di non voler più sopperire alle mancanze europee all’interno dei bilanci NATO come potremmo difenderci come Europa? Come cambierebbe il sostegno a Kyiv? 4. Il dramma di Gaza è sotto gli occhi di tutti. Voi come Partito Democratico state chiedendo il cessate il fuoco immediato, ma il governo e in particolare la Farnesina come si stanno muovendo? La diplomazia italiana (e anche quella europea) quanta influenza può avere su Netanyahu? Il 13 febbraio il Parlamento italiano, grazie ad una iniziativa del Partito Democratico, ha votato per il cessate il fuoco umanitario a Gaza, in linea con le richieste avanzate dalle Nazioni Unite, e per la liberazione incondizionata degli ostaggi israeliani. Con questo voto, il governo si sarebbe dovuto impegnare a promuovere ogni iniziativa volta a tutelare l'incolumità della popolazione civile di Gaza, garantendo anche la fornitura di aiuti umanitari continui, rapidi, sicuri all'interno della Striscia. Da quel voto però il governo non sembra aver fatto alcun passo avanti. Anche la settimana passata in Aula ho chiesto al Ministro Tajani di onorare il voto fatto dal Parlamento e di riferire più spesso in Parlamento sulle iniziative del governo. Ad oggi non abbiamo purtroppo grandi risposte, anche se il compito della politica davanti a tutta questa catastrofe e orrore è proprio quello di immaginare e costruire una strada politica alternativa - anche quando non sembra esserci. 5. Nei giorni scorsi e precisamente il 5 marzo scorso è stato votato dal Parlamento il via libera alla missione “Aspides”. Qual è l’importanza della missione e del ruolo dell’Italia. Servirà a far tornare credibile il nostro Paese in tema di politica estera? La missione “Aspides” approvata all’unanimità dal Parlamento (eccetto per Avs) è importante per garantire la sicurezza nel Mar Rosso e dimostrare l'impegno dell'Italia in politica estera al pari dei nostri partner europei. Questa missione difensiva mira a garantire maggiore stabilità regionale e rafforzare la cooperazione internazionale. Partecipare a queste missioni può migliorare la credibilità della politica estera italiana, ma è importante mantenere coerenza e impegno su più fronti per consolidare questa credibilità, ad esempio impegnandosi dì più per raggiungere un cessate il fuoco umanitario nella guerra a Gaza. 6. Onorevole, secondo Lei possiamo dire di essere pienamente coinvolti all’interno di un conflitto globale, combattuto dagli stessi schieramenti con metodi convenzionali - come in Ucraina e in Israele - e non convenzionali, con attacchi finanziari e informatici? In questo momento c’è un tema la cui importanza non sembra essere compresa abbastanza dai cittadini italiani: la macchina di propaganda e di disinformazione che la Russia di Putin sta portando avanti nel nostro Paese. Per farlo utilizzano metodi non convenzionali, come infiltrazioni sui social media o altri metodi più subdoli. Con gli strumenti legislativi a mia disposizione continuerò a tenere alta l’attenzione su questo tema, specialmente in vista delle elezioni europee. qui per modificare. Marco Cappa Giovane Avanti! Roma C’era un tempo in cui la proposta del “campo largo” sembrava la soluzione al traballante mondo del centro-sinistra. Un campo, quello dell’alleanza PD-M5S, che sembrava l’unica scelta pragmatica per avere anche solo la possibilità di competere con il centro-destra (che ora assomiglia di più a un blocco FDI e “alleatini”). Quel tempo era la fine del mese scorso, in cui Alessandra Todde, sostenuta dall’opposizione intera stranamente unita, vinceva il trono della Regione Sardegna. Un attimo di luce, di speranza, per coloro che fin dal 2019, al tempo il segretario Dem era Nicola Zingaretti, avevano supportato l’alleanza giallo-rossa. Un’idea che però, a causa della sola motivazione utilitaristica, sembra ormai naufragare. Ne è un esempio la recentissima sconfitta elettorale in Abruzzo dove, un campo largo potenziato, ha perso di ben sette punti percentuali. Una vera e propria doccia fredda per l’opposizione che, in Basilicata, sta consumando il primo atto di una sanguinosa morte di quella che sembrava essere un’alleanza tutto sommato vincente.
Ad oggi, il sottoscritto sta scrivendo il 21 marzo, i candidati per la presidenza lucana sono tre: un solitario Eustachio Follia per i liberali di Volt; il presidente uscente Vito Bardi per il centro-destra più l’ex terzo polo (tema su cui torneremo più avanti); e Piero Marrese, per una coalizione, quella del centro-sinistra, che non finisce di calpestarsi i piedi. La candidatura di Bardi è semplice e lineare: è il presidente uscente, ha una coalizione forte alle spalle ed è capace, essendo iscritto in Forza Italia, di attrarre un elettorato che va dall’estrema destra (FDI e Lega) al centro, tanto da aver raccolto anche le adesioni, stanche, di Azione e Italia Viva. Quella di Marrese invece è una situazione un po' diversa. Il campo largo, composto da PD, M5S, AVS e +EU, ha litigato non poco per giungere a questo punto. Infatti la prima candidatura, arrivata in un momento abbastanza tardo rispetto a quelle avversarie, che risalgono al 2023, era Angelo Chiorazzo. Imprenditore, cattolico, vicino a Sant’Egidio e sponsorizzato dall’ex ministro Speranza, sembrava essere la punta di diamante del PD. Peccato però che a Conte, Bonelli e Magi non dev’ssere piaciuto così tanto dato che poco tempo dopo l’annuncio della sua candidatura il suo nome sparì dai radar. L’imprenditore non si è fatto attendere dato che, con Basilicata Casa Comune, ha comunque cercato di correre, questa volta contro il PD, al trono di Potenza. La scelta è poi ricaduta, all’unanimità del centro-sinistra, sull’oculista Domenico Lacerenza. Una candidatura assai flebile dato che, per volontà dello stesso Lacerenza, la partita in casa progressisti si è riaperta. Dopo la solita roulette di nomi, tra cui figurano anche quelli di Luciana Lamorgese e Roberto Speranza, si optò per il nome più vicino alla volontà territoriale: il presidente della provincia di Matera ed esponente PD, Piero Marrese. A questo punto, per quelli che stanno leggendo tale articolo in terra lucana, non sarà sfuggita la mancanza, ad arte quasi, di un nome abbastanza importante. Infatti, sembra che nelle chat tra Schlein e Conte il nome dell’ex presidente lucano ed esponente territoriale del PD Marcello Pittella, non sia comparso. Probabilmente una figura troppo divisiva per il campo largo, che fino alla candidatura di Marrese aveva sempre optato per nomi indipendenti. La portata dell’evento però non sembra essere modesta. Infatti, sembra che ai vicinissimi di Pittella sia arrivato un vocale Whatsapp in cui l’ex presidente afferma: «Il Pd mi ha spremuto come un limone e poi mi ha gettato nella spazzatura». Uno strappo talmente grande che Pittella ha paragonato la sua esclusione alla shoah: «Sapete quando deportavano gli ebrei e dovevano portarli nelle camere a gas? Ecco, io sono come gli ebrei, uno che deve morire». Un commento platealmente esagerato che però non ha infastidito in alcun modo il leader di Azione, Calenda, che non ha perso tempo ad accogliere Pittella tra le fila del suo partito, oltre a quel sperato (e disperato) consenso che nel 2013 lo fece vincere. Ma l’ex terzo polo? Sembra che Azione e Italia Viva, nonostante i frequenti litigi nazionali, appoggino lo stesso nome: il forzista e presidente uscente Vito Bardi. Una scelta discutibile secondo alcuni, che potrebbe dividere ancora di più la galassia liberale dato che +Europa corre assieme al PD e Volt ha optato per una candidatura autonoma. C’è anche da considerare però il commento del vicepresidente vicario di Fratelli d’Italia alla Camera dei deputati, Manlio Messina: «Non parliamo di un accordo nazionale con Carlo Calenda, noi non abbiamo bisogno di stampelle - nemmeno in Basilicata - perché possiamo vincere e vinceremo per il buon lavoro di Bardi. Poi possiamo fare fantapolitica, ma è prematuro parlare di cose che non stanno né in cielo né in terra». Insomma, la Basilicata sembra essere il campo di prova di un’opposizione divisa che, per pura necessità di non vedersi travolgere dall’onda nera che oggi siede al governo, rinuncia ai propri, pochi, valori per allearsi con forze del tutto impreparate. C’è chi, come il M5S, corre al fianco di un partito che fino a poco tempo fa riteneva il suo maggior nemico. Altri invece, nonostante le belle parole che gettano in pasto ai media, vanno ad allearsi proprio con chi li osteggia (parlo di Azione e IV). Una situazione strana e imbarazzante che non lascia nessun’altra conclusione: in Basilicata si sta consumando il primo atto di una sanguinosa discesa nel baratro del grande, scomposto e fragile “campo largo”. Giulia Cavallari Giovane Avanti! Bologna Nello scontro tra Stati uniti e Cina sul fronte della ‘guerra’ tecnologica si inserisce il bando che gli USA hanno stanno mettendo in atto contro il colosso social TikTok. Questa però non è l’unica grana che la ByteDance deve affrontare. Anche in Europa TikTok è ‘sotto accusa’.
Ormai da diversi anni si parla di TikTok come di un social network problematico sotto diversi aspetti tra cui quello più delicato riguarda la questione fondamentale della protezione dei dati personali degli utenti che utilizzano questo social, soprattutto gli utenti minorenni. Sono almeno 170 milioni gli americani che hanno effettuato il download e utilizzano TikTok. Si tratta di un disegno di legge che è stato approvato dalla Camera dei rappresentanti del Congresso americano con un’ampia maggioranza (352 voti favorevoli e 65 contrari) e viene concesso alla ByteDance un periodo di sei mesi per vendere la piattaforma che altrimenti verrà messa al bando negli USA. Ora il disegno di legge passerà al voto del Senato. Qualora anche il Senato dovesse votare a favore allora la ByteDance dovrà procedere alla vendita della piattaforma. Ma la partita è ancora aperta. La ByteDance è legata al Partito Comunista Cinese, quindi la scelta cui la società è chiamata non è così di immediato esito. Perché gli USA si stanno muovendo in questa direzione? Perché più volte sono stati sollevati dubbi in merito alla sicurezza dell’app e ai dati che essa raccoglie. Il timore maggiore è che i dati personali degli americani vengano trasmessi al governo cinese. Mike Pence (repubblicano) ha affermato che “non ci sono dubbi sul fatto che questa app sia uno spyware cinese e che la vendita a una società avversaria non straniera sia nell’interesse del popolo americano”. Gli USA contestano la proprietà non TikTok in sé come spiegato anche dal Consigliere per la Sicurezza nazionale Sullivan. TikTok si serve di un algoritmo potentissimo che è in grado di ‘indirizzare’ i contenuti e di ‘manovrarli’ sulla base delle scelte degli utenti. Ma il rischio maggiore e anche più grave è quello legato alla disinformazione che corre attraverso le condivisioni e i post sul social in questione. Certo, non è l’unico social dove ci si può imbattere in post carichi di disinformazione perché anche Facebook e Instagram, m anche X (ex Twitter) non ne sono ‘immuni’. Biden (che ha anche un profilo TikTok) ha fatto sapere che firmerà la legge sulla base del Protecting American from foreign Adversary Controlled Application Act. Ma effettivamente cos’è il Protecting American from foreign Adversary Controlled Application Act? Si tratta di una proposta di legge che dovrebbe rendere illegale facilitare la distribuzione e utilizzo di applicazioni social prodotte e controllare da chi è un avversario degli USA sia a livello politico che economico che tecnologico. Già Trump, quando era Presidente USA, aveva emesso un ordine esecutivo con cui metteva al bando e transazioni commerciali tra società americane e la ByteDance, capogruppo di TikTok. Come prevedibile la reazione cinese non si è fatta attendere con il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, che ha affermato che la mossa fatta dagli USA si ritorcerà contro gli Stati Uniti e che il voto della Camera dei Rappresentanti contrasta con il principio di concorrenza leale. Sono circa 170 milioni gli americani che hanno scaricato l’app e che la utilizzano quotidianamente e sono proprio loro che stanno protestando contro il divieto ‘seguendo’ quanto detto dal CEO di TikTok che ha invitato gli americani alla mobilitazione ‘a tutela’ del social network. "Crediamo di poter superare questa situazione insieme. Proteggi i tuoi diritti costituzionali. Fai sentire la tua voce", ha detto il CEO di TikTok, in un videomessaggio pubblicato su X (ex Twitter). Anche in Europa TikTok è accusata di violazione nel trattamento dei dati. Infatti, è stata aperta un’indagine per sospetta violazione della trasparenza e degli obblighi di tutela dei minori. È quanto annunciato dal Commissario europeo al mercato interno, Breton. L’indagine avviata è incentrata sul design he crea dipendenza, sui limiti di tempo, sulla verifica dell’età e sulle impostazioni sulla privacy predefinite. Il procedimento avviato dalla Commissione europea dovrà valutare se da parte di TikTok e della società ByteDance vi sia stata una violazione del Digital Service Act e dovranno anche essere prese in considerazione e analizzate le misure che TikTok aveva già messo in atto come ‘misure di mitigazione’ del rischio. L’avvio anche in Europa di un procedimento formale porta la Commissione UE a poter, eventualmente, decidere di adottare una serie di misure alle quali TikTok e la ByteDance dovranno conformarsi soprattutto tenendo conto del Digital Service Act nel quale è prevista una distinzione tra piattaforme in base alla loro grandezza. TikTok rientra tra le very large online platform e sulla base del Digital Service Act con il conseguente obbligo di uniformarsi alla normativa da poco entrata in vigore in UE. Giulia Cavallari Giovane Avanti! Bologna Giorgia Meloni, insieme alla Presidente della Commissione Von Der Leyen, hanno incontrato Al Sisi, Presidente dell’Egitto con l’obiettivo di sottoscrivere un ‘accordo’ dal valore di 7,4 miliardi di euro nell’arco di tre anni (2024-2027). Una somma imponente che l’Europa farà ‘cadere’ sull’Egitto. Hanno fatto parte di questa delegazione anche il cancelliere austriaco Nehammer, i primi ministri del Belgio e della Grecia, De Croo e Mitsotakis, il primo ministro di Cipro, Christodoulidis.
Ursula Von Der Leyen ha dichiarato di essere “felice di essere al Cairo per posare un’altra pietra miliare nel partenariato strategico tra UE ed Egitto, soprattutto considerato il peso politico ed economico dell’Egitto la sua posizione strategica” con riferimento ovviamente alla drammatica crisi di Gaza e ieri è stata ribadita l’opposizione ad una eventuale operazione militare da parte di Israele a Rafah che rappresenterebbe la definitiva catastrofe umanitaria che la Striscia di Gaza e i civili si troverebbero a vivere. A tal riguardo è stata evidenziata l’urgenza di giungere ad un accordo per il cessate il fuoco e fare in modo che arrivino aiuti umanitari a Gaza ove occorrono, quotidianamente, almeno 500 camion di aiuti come ha affermato Von der Leyen. Un accordo che la Meloni ha definito “utile per fronteggiare flussi dei migranti”. Un accordo che ha un prezzo alto per Bruxelles, ma che all’Egitto servono visto l’elevato debito esterno letteralmente schizzato verso l’alto e che sta subendo forti ripercussioni a livello economico (incassi dal Canale di Suez) a causa degli attacchi degli Houthi e circa 1,8 miliardi di euro dovrebbero essere indirizzati verso un sostegno all’economia egiziana. Mentre 5 miliardi di euro saranno redistribuiti su progetti di varia natura e che siano progetti condivisi e che siano relativi a “democrazia, libertà, diritti umani”. Diciamo che l'Egitto non brilla molto per riconoscimento e garanzia di libertà e diritti umani. Chiaramente parte di questi 7,4 miliardi saranno distribuiti anche per investimenti nel settore energetico. L’Unione Europea, come si legge dalla dichiarazione pubblicata, “riconosce l’Egitto come partner affidabile e il suo ruolo geostrategico unico e vitale di pilastro della sicurezza, della moderazione e della pace nella regione del Mediterraneo e del Vicino Oriente e dell’Africa”. Si legge anche che “L’Egitto e l’UE continueranno a lavorare per costruire un’agenda positiva per la prosperità e la stabilità. L’Egitto e l’UE continueranno a lavorare sui loro impegni per promuovere ulteriormente la democrazia, le libertà fondamentali e i diritti umani, la parità di genere e le pari opportunità, come concordato nelle priorità del partenariato”. La Dichiarazione congiunta pone le basi per il futuro partenariato strategico tra Unione Europea ed Egitto con l’obiettivo di definire e riconoscere l’Egitto come “partner affidabile e riconoscere il suo ruolo geostrategico unico e vitale di pilastro nel Mediterraneo”. La firma dell'accordo tra Italia ed Egitto rientra nel fantomatico Piano Mattei del quale ancora si fatica a conoscerne i reali contenuti anche se la Presidente Meloni spiega che “Italia ha un piano con gli Stati africani che è in fase di realizzazione e ammonta a 5 miliardi di euro, e l'Egitto ne fa parte”. Vedremo nel prossimo futuro quali saranno gli sviluppi e se ci saranno degli sviluppi. Si tratta del bilaterale che la Meloni ha avuto con Al Sisi e che ha portato alla firma di oltre 10 memorandum che vanno dall’agricoltura sostenibile ai progetti infrastrutturali. Di fatto, stando a quanto ritiene Meloni, è stata avviata la “cabina di regia” di questo Piano. Nel frattempo il settore finanziario italiano con Cassa Depositi e Prestiti, con Simest, Sace hanno iniziato ad aprire propri sportelli supportati dall’Ambasciata d’Italia al Cairo e sono stati sottoscritti accordi con società private egiziane (come riporta anche il sito della Presidenza del Consiglio). Diciamo che qualsiasi cosa che Giorgia Meloni fa acquista, secondo la comunicazione governativa, quell’aurea dorata, ma guardando poi ai dettagli emergono scatole vuote o accordi che di certo non sono risolutivi per il nostro Paese soprattutto se si guarda all'infiammato contesto geopolitico nel quale l’area del Medio Oriente si trova. Di certo non basteranno accordi o fondi (europei) per bloccare i flussi migratori. Dei 7,4 miliardi, 200 milioni dovrebbero essere destinati alla gestione dei flussi migratori vale a dire per la sicurezza dei confini, per favorire la migrazione legale e scoraggiare quella illegale. Queste parole pronunciate cozzano un po' con l’immagine dell’Egitto che conosciamo in particolare per quanto riguarda il caso Regeni eppure Giorgia Meloni ha ‘liquidato’ la vicenda facendo riferimento (giustamente) al processo in corso a Roma e ha definito questo accordo, appena sottoscritto, come ‘storico’. Sarà pur vero che gli accordi non cambiano la posizione su Regeni, ma quale migliore occasione di poter direttamente porre la questione? Noi cittadini italiani, cara Presidente Meloni, Giulio Regeni non lo dimentichiamo e continueremo a chiedere verità insieme alla famiglia di Giulio. Da Presidente del Consiglio avrebbe dovuto affrontare apertamente ed esplicitamente anche questo tema estremamente delicato soprattutto perché è proprio il regime egiziano che sta coprendo coloro che hanno torturato e ucciso Giulio Regeni. Giulia Cavallari Giovane Avanti! Bologna Ieri il Parlamento italiano ha votato il via libera alla missione “ Aspides” con comando operativo affidato all'Italia.
Il Ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha dichiarato che “Aspides è difensiva e mai offensiva”. Tuttavia, quando si parla di missione difensiva significa non solo azione di ‘scorta’ per le navi mercantili, ma anche- come già accaduto alla nave “Caio Duilio”- azione difensiva cioè possibilità di reazione in modo militare. Concretamente le parole utilizzate dal Ministro degli Esteri sono state quelle di “autodifesa estesa” vale a dire la possibilità di intervenire per neutralizzare eventuali attacchi da parte degli Houthi che stanno mettendo a dura prova il commercio marittimo internazionale in quel tratto di mare. Il Parlamento ha anche votato la Missione “Levante” che impiegherà 200 uomini, una nave, una decina di mezzi e un mezzo di aviazione con l’obiettivo di portare aiuti alla popolazione di Gaza che sta vivendo una situazione drammatica prevedendo anche aiuti da paracadutare. A larga maggioranza è stato dato il via libera alla missione o meglio il Parlamento ha autorizzato diverse missioni internazionali tra cui “Aspides”. Una missione che ha come obiettivo quello di garantire la libertà e la sicurezza delle navigazione delle navi e cargo commerciali. Come già scritto in un articolo pubblicato pochi giorni fa, si tratta di una missione a difesa delle navi commerciali dagli attacchi degli Houthi. Notizie di poche ore fa riportano nuovi attacchi da parte degli Houthi. Questa volta è stato colpito un cargo greco con l’equipaggio costretto ad abbandonare la nave. Il bilancio è di due marinai morti e 6 feriti. Il Dipartimento di Stato USA ha dichiarato che continuerà a lavorare per punire gli attacchi degli Houthi che mettono a rischio il commercio internazionale, la libera navigazione e la vita delle persone. Inoltre, proseguono senza sosta gli attacchi da parte del gruppo yemenita nell’area del Mar Rosso rendendo sempre più pericoloso oltre che costoso il trasporto via mare delle merci. Una situazione che desta forti preoccupazioni anche sul fronte ambientale perché gli attacchi alle navi cargo e commerciali possono provocare gravi e irreparabili danni ambientali ed ecologici visto che una nave è già affondata e trasportava fertilizzanti. Ma gli attacchi degli Houthi stanno colpendo anche un’altra infrastruttura fondamentale: i cavi delle dorsali sottomarine vale a dire i cavi cablati attraverso i quali rappresentato un asset strategico. Proprio le acque in cui stanno avvenendo gli attacchi degli Houthi ospitano una parte importante e fondamentale del sistema di telecomunicazioni che collegano l’Europa e l’Asia. Queste infrastrutture stanno già subendo sabotaggi che sono stati attribuiti proprio al gruppo yemenita. Si tratta delle infrastrutture strategiche per il web e un loro danneggiamento andrebbe a compromettere il funzionamento della rete internet globale. Verso la fine di febbraio era stato denunciato il danneggiamento di tre cavi sottomarini nello Stretto di Bab el Mandeb (collegamento tra Mar rosso e Oceano Indiano) perché vi erano stati problemi di connessione sia nei Paesi del Golfo che in India e lo Yemen si trova in una posizione strategica perché da li passano diversi cavi sottomarini e se si osserva le mappe di FiberAtlantic si può verificare come il cavo Asia Africa Europe 1 (AAE-1 lungo 25.000 km che parte da Cape D'Aguilar proseguendo verso India, Pakistan, fino a Yemen per poi passare attraverso il Canale di Suez e arrivare in Europa tra Malta-Italia-Francia) sia segnato in rosso (Fault) cioè non funzionante. Anche la difesa dei cavi sottomarini della rete internet rientra 'a pieno titolo' nelle azioni di difesa messe in campo da USA e UE. Proprio quel tratto è uno dei più vulnerabili perchè da lì passa una vera e propria dorsale di cavi che dall'Europa va verso l'Asia e quel tratto di mare è un vero e proprio punto nevralgico e da quei cavi passa circa il 17% del traffico della rete internet mondiale. GIULIA CAVALLARI Giovane Avanti! Bologna unIeri, per la prima volta dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, una nave italiana è stata attaccata. Si tratta della del cacciatorpediniere "Caio Duilio" della Marina Militare che è una delle navi della operazione europea Aspides sotto la guida del contrammiraglio Costantino.
La "Duilio" della Marina Militare è anche più equipaggiata a livello tecnologico e in grado di svolgere operazioni sia di comando che di controllo. La nave della Marina Militare ha intercettato e abbattuto un drone degli Houthi proveniente dallo Yemen. Il drone è stato intercettato e sono stati attivati tutti i sistemi di autodifesa ed è stato abbattuto a 6 km di distanza dall'imbarcazione. Si tratta del primo attacco condotto dagli Houthi contro l'Italia. Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha dichiarato che "era un drone con caratteristiche analoghe a quelli già usati in precedenti attentati" e ha aggiunto "gli attacchi terroristici degli Houthi sono una grave violazione del diritto internazionale e un attentato alla sicurezza dei traffici marittimi" che ha anche aggiunto che "questi attacchi sono parte di una guerra ibrida, che usa ogni possibilità, non solo militare, per danneggiare alcuni Paesi e agevolarne altri". Anche la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni-durante l'incontro con Biden alla Casa Bianca- ha definito inaccettabili gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso e ha definito la missione Aspides "una importante risposta europea contro gli Houthi". Questo attacco condotto con i droni rappresenta un'ulteriore escalation nella crisi del Mar Rosso. Fino a ieri gli attacchi erano stati condotti contro navi USA e britanniche. L'aggravamento di questa crisi geopolitica diventa anche politica. L'operazione Aspides è la missione militare europea approvata dall'Unione Europea il 19 febbraio scorso e il Parlamento italiano deve ancora esprimere il suo voto, calendarizzato al Senato per il 5 marzo prossimo. Francia e Germania sono già in campo. All'Italia dovrebbe essere affidato il comando delle forze e la nave "Caio Duilio" dovrebbe essere il 'quartier generale' di tutta la missione Aspides. La missione Aspides è un'unica missione e tutta la flotta occidentale sarà agli ordini degli ufficiali italiani. Ma dal 2008 è attiva anche un'altra missione (al momento sotto la guida della Spagna) chiamata "Operazione Atalanta" contro gli attacchi di gruppi di pirati al largo delle coste somale e a questa missione partecipa anche l'Italia. Altra missione è la "Emasoh/Agenor" nata su iniziativa della Francia e che è attiva nell'area tra la penisola arabica e l'Iran con a comando Abu Dhabi. Ma cosa prevede questa missione? Si tratta di una operazione militare navale per proteggere gli interessi economici e commerciali internazionali e per garantire la libera navigazione nel Mar Rosso delle navi commerciali che da mesi sono sotto attacco degli Houthi soprattutto se si tiene conto che dal Canale di Suez passa il 40% dell'export marittimo italiano e il 12% dell'export mondiale. Si è arrivati all'avvio di questa missione prendendo in considerazione l'art. 44 del Trattato sull'Unione Europea (TUE) in base al quale può " il Consiglio può affidare la realizzazione di una missione a un gruppo di Stati membri che lo desiderano e dispongono delle capacità necessarie per tale missione. Tali Stati membri, in associazione con l'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, si accordano sulla gestione della missione". Si tratterà sicuramente di una operazione costosa in termini economici per difendere e difendersi dagli attacchi degli Houthi con un obiettivo: la difesa delle rotte commerciali e delle navi perché è palese la continua violazione del diritto internazionale da parte del gruppo yemenita. |