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di Marco Cappa Lo scorso 20 marzo si è insediato il nuovo Consiglio d’Amministrazione dell’AIFA. Perché è così importante saperlo? Direte voi. Ovviamente non è solo una questione di coscienza civica dato che l’Agenzia Italiana del Farmaco è il più importante ente pubblico a regolare tutto ciò che riguarda i medicinali nel nostro paese; ma soprattutto è importante osservare la composizione di questo nuovo CDA. Come si può apprendere dal sito web dell’AIFA il CDA è composto da quattro membri, più altri due che nonostante lo presenzino non ne fanno parte. La cosa sconvolgente è che tra questi membri nessuna è donna. Il più importante organo regolatore in materia di farmaci non ammette la presenza femminile all’interno della sua dirigenza, o meglio, lo farebbe se non fosse per questo governo.
Arrivati a questo punto potreste pensare che questo articolo sia solo una mera propaganda sinistroide contro l’esecutivo. Vorrei dimostrarvi però che non è così. Come ho già detto il CDA dell’AIFA è composto da quattro membri permanenti, i quali da adesso e per cinque anni saranno solo uomini. Il fatto è che questi membri, come dicono le regole, sono stati nominati dai diversi ministeri del governo. In realtà il governo ne nomina due: il Consigliere designato dal Ministero della Salute, cioè Francesco Fera; e il Consigliere designato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, Emanuele Monti. Gli altri due ruoli vengono assegnati dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano, oggi ricoperti da Angelo Gratarola e Vito Montanaro. Anche nelle due ultime nomine però c’è da storcere il naso. Infatti, la Conferenza Stato-Regioni è composta da: Presidente del Consiglio (Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia), Ministro per gli Affari Regionali (Roberto Calderoli, Lega), i presidenti delle regioni e delle provincie autonome (5 di Forza Italia, 5 della Lega, 3 del PD, 2 di FDI, 3 riconducibili al centro-destra e 2 al centro-sinistra); tenete conto che in questo calcolo non è conteggiata Alessandra Todde, esponente del Movimento 5 Stelle, dato che all’epoca dei fatti non aveva ancora preso in mano le redini della Regione Sardegna. Se contiamo anche la presenza del Ministro della Salute (Orazio Schillaci, indipendente ma comunque parte di questo governo), essendo il tema di sua competenza, arriviamo a un totale di 24 membri di cui la stragrande maggioranza, ben 19, gravitano nel mondo della destra. Alla luce di ciò non è strano pensare che la decisione di assegnare quei ruoli, quelli di Consiglieri nel CDA dell’AIFA, provenga dalle proprie convinzioni ideologiche. Purtroppo, stando ai dati del sindacato Annao-Assomed, il quale tutela i professionisti del campo medico, quello della disparità di genere è un tema molto attuale. Infatti, nel 2020 le direttrici di strutture sanitarie in tutto il paese erano solo il 17,2%. Nel campo della medicina universitaria non va meglio: le ordinarie erano solo il 19,3% mentre le ricercatrici tra il 40 e il 55%. Ma ci sono anche dati provenienti da agenzie indipendenti, come Openpolis, la quale afferma che nel 2024 sono stati rinnovati 115 incarichi nel settore medico ma solo il 29% di questi sono stati assegnati a delle donne. Una situazione, quella della disparità di genere sui luoghi di lavoro, che non riguarda solo il settore medico. Infatti, stando a quanto dice il Global Gender Gap 2023, servono ancora 131 anni affinché in Italia questa differenza si riduca del tutto. C’è da dire però, che quei dati risalivano a diversi mesi fa, prima di diverse decisioni di questo governo. Per esempio, l’esecutivo di Giorgia Meloni ha aumentato l’IVA sui prodotti per la prima infanzia, o ancora peggio, ha aumentato le libertà dei gruppi pro-vita all’interno dei centri per l’aborto. Tutte decisioni che non solo si ripercuoteranno su tutte quelle donne che già vivono numerose discriminazioni sul lavoro, anche socialmente accettate, ma che renderanno nei fatti più difficile l’essere donna nel nostro paese. In attesa di un ricalcolo da parte del Global Gender Gap possiamo affermare una sola cosa: questo governo sta aumentando il divario che esiste tra uomini e donne.
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Marco Cappa - Giovane Avanti! Roma È guerra aperta in Puglia dopo che Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, ha fatto saltare le primarie del campo largo in vista delle elezioni comunali di Bari. Ciò, a detta dell’ex Presidente del Consiglio, sarebbe stato causato dal proseguimento dell’inchiesta aperta poche settimane fa a carico di alcuni esponenti del Partito Democratico locale, rei di aver comprato dei voti in due elezioni di piccoli centri del barese. Infatti, a detta di chi sta indagando, le elezioni comunali del 2020 di Grumo Appula e quelle del 2021 di Triggiano, sarebbero state inquinate dalla compravendita di alcuni voti, anche a 50€. Inchiesta che avrebbe portato a dieci indagati e due arresti: Antonio Donatelli, sindaco Dem di Triggiano; e Sandro Cataldo, referente del movimento politico “Sud al centro”. Sarebbe indagata anche Anita Maurodinoia, Assessora regionale ai Trasporti e moglie di Cataldo. Quest’ultima si sarebbe dimessa dalla giunta regionale provocando molte grane al governatore Emiliano, l’unico esponente del PD che all’epoca della segreteria Bersani sosteneva l’utilità di allearsi con il movimento di Grillo, e portando Conte alla rottura con il partito di Schlein.
Una scelta, quella di Conte, che secondo la Schlein faciliterebbe la vittoria alle comunali della destra. C’è da dire che nonostante nel centro-sinistra attualmente ci siano due candidati sindaci, Michele Laforgia (M5S, Italia Viva, Sinistra Italiana, PSI e +EU) e Vito Leccese (PD, Azione e Verdi), il candidato pentastellato starebbe temporeggiando in vista di una possibile ricucitura del campo largo. Comunque, Conte non sembrerebbe intenzionato a far pace con la Schlein, rispondendo alle provocazioni di lei minacciando di far saltare l’alleanza non solo a Bari ma in tutto il paese. A detta di qualche malintenzionato però, la scelta di Conte non sarebbe unicamente giustificata da un senso morale provocato dall’inchiesta per l’inquinamento delle votazioni. Infatti, non è sfuggito a pochi la debolezza del Movimento in questo momento, che nonostante trovi in Puglia una grande base elettorale non può reggere il confronto con il PD. Perciò in questi giorni sta girando la voce, soprattutto negli organi di stampa che fano capo alla destra, di come Conte abbia fatto tutto ciò per evitare di legittimare la leadership Schlein all’opposizione. Infatti, è ormai chiaro come la Meloni veda la segretaria Dem nelle vesti di capo della sinistra e sua principale avversaria. Una legittimazione elettorale, per di più nell’ambito delle primarie del solo campo largo, sarebbe il colpo di grazia che relegherebbe il Movimento 5 Stelle a forza secondaria, per capirci al livello di AVS o dell’ex terzo polo. Un rischio che l’avvocato del popolo non può assolutamente correre dato il mutamento dello scenario politico nazionale, in un quadro in cui oltre al rafforzamento di FDI e PD vediamo anche il delineamento di una seria area liberal al centro. Insomma, osservando bene la situazione pugliese possiamo renderci conto di come i possibili, e ora concreti, rischi del campo largo non deriverebbero dal suo, perdonate il gioco di parole, allargamento ai liberali e ad AVS, come qualcuno immaginava; ma il suo più grande pericolo sarebbe proprio la competizione, che oggi sembra implacabile, tra PD e M5S. Situazione che a qualche nostalgico come me, può ricordare in linea generale quella della frattura insanabile tra PSI e PCI nella Prima Repubblica. Paragone azzardato forse, ma che può restituirci l’idea di un quadro politico, quello che alcuni chiamano “Terza Repubblica”, in cui il campo progressista potrebbe ritrovarsi ad essere irrimediabilmente separato e compromesso. La strada verso gli Stati Uniti d’Europa passa per l’alleanza tra socialisti e liberali, forse10/4/2024 Marco Cappa- Giovane Avanti! Roma Ci sono un socialista, un liberale e un conservatore. Il primo spinge da anni per l’integrazione europea del proprio paese e del suo popolo. Il secondo tiene così tanto all’idea di Unione che organizza una convention per andare verso una federazione continentale. Il terzo invece, a causa del suo irrefrenabile nazionalismo, è ostico all’idea di “UE” e sabota gli altri due. Quanto detto non è una barzelletta ma la realtà dei fatti, la situazione osservabile alla convention del 24 febbraio denominata: “Verso gli Stati Uniti d’Europa, con Emma Bonino”. L’iniziativa, organizzata e promossa da +Europa, ha raccolto il mondo liberale italiano e più in generale i principali attori del centro-sinistra, con la voluta assenza del Movimento 5 Stelle e di Alleanza Verdi Sinistra, ritenuti troppo distanti dalle istanze europeiste dell’evento. Dicevamo, il dichiarato scopo della convention è stato quello di stilare un programma comune alle forze liberali, con lo scopo di volgere l’opinione pubblica verso il tema del federalismo europeo, caro al partito di Emma Bonino e Riccardo Magi tanto da farne esplicito richiamo nel nome.
La convention, condotta da Alessandro Cecchi Paone, che da decenni bazzica il mondo liberal-radicale, si è aperta con un intervento del segretario di +Europa, Riccardo Magi: "Il salto di qualità deve diventare un obiettivo politico e non tecnico". Chiaro il discorso di Magi: il federalismo europeo non riguarda solo le alte sfere di Bruxelles e Strasburgo, richiamate da numerosi riferimenti all’ex Presidente del Consiglio Mario Draghi, ma deve comparire sulla bocca di tutti. Un discorso sensato e condivisibile, rimarcato anche dalla presenza, mediante collegamento online, di Beppe Sala. Il sindaco di Milano, più attinente alla sfera d’influenza PD che di +Eu, ha voluto sottolineare come: "In questo momento a Milano si parla d’inquinamento. Ma questo è un tema milanese? È un tema profondamente europeo", e ancora, "siccome nel 2050 l’80% della popolazione vivrà in aree urbane [...] non è giusto che i sindaci siano esclusi dal dibattito". Come intuibile da questo preambolo, sono tanti i temi trattati il 24 febbraio: dall’ambiente alla legalizzazione della cannabis, dagli alleati europei della destra di governo ai temi attinenti alla comunità LGBTQIA+. Tutto per arrivare a una generica ma fondamentale conclusione: "Qual è il nostro modello europeo di riferimento?", come dichiarato dalla coordinatrice di meglio legale, la piattaforma liberale il cui obiettivo è la sensibilizzazione al tema della liberalizzazione della cannabis. All’interno dell’Unione Europea convivono, più o meno pacificamente, 27 nazioni. Il che vuol dire 27 legislazioni diverse, 27 strutture socioeconomiche diverse, 27 percezioni sociali diverse ma soprattutto 27 insiemi di interessi diversi. "L’esigenza di sostenere i bisogni nazionali ha impedito l’adozione di misure lungimiranti" secondo Chiara Favilli, docente di Diritto dell’Unione Europea presso l’Università di Firenze. Secondo Federico Pizzarotti, ex sindaco di Parma e presidente di +Europa, ciò è causato dalla "mancanza di una dimensione federale" che "impedisce all’Europa di influire sul piano globale". Piano su cui si sofferma anche il co-presidente di Volt Italia: "In America domani potrebbe esserci Trump, non possiamo guardare a Oriente dove c’è la Cina. L’Europa è l’unica cosa che abbiamo". Insomma, gli Stati Uniti d’Europa, così chiamata l’eventuale federazione continentale voluta dal partito di Bonino, sono un fatto di necessità. L’articolo che state leggendo è iniziato con una simil-barzelletta, voluta dal sottoscritto non solo per facilitare e invogliare la lettura di un tema oggettivamente complesso come quello del federalismo europeo. Il suo scopo era anche quello di rendere chiara la natura sì di convenienza dell’evento, per cercare di dare il via al processo fondativo di una macro lista liberale dato che difficilmente +Europa avrà la possibilità di correre alle europee di giugno in solitaria, ma anche l’interesse di numerose forze politiche. I big presenti, oltre alla leader di +Eu Emma Bonino, trattata dai suoi iscritti in un modo che potrebbe ricordare la visione forzista del defunto Silvio Berlusconi, erano: Carlo Calenda, Matteo Renzi ed Elly Schlein. I tre, che condividono un passato travagliato con il Partito Democratico, nonostante la Schlein sia tornata sui suoi passi addirittura vincendo l’ultimo congresso, si sono lanciati in lunghi interventi che, quasi come dei comizi politici, hanno animato la folla presente in sala spostando l’attenzione sulla dichiarata bontà dei loro partiti. Per il mondo socialista, gli Stati Uniti d’Europa "sono un fatto di coerenza", come affermato dal segretario del PSI, Enzo Maraio, anch’egli presente all’evento. Una posizione rimarcata dalla ben più importante presenza della segretaria del PD, e legittimata dal governo come leader de facto dell’opposizione, Elly Schlein. Il suo lungo intervento ha inizio con una citazione di Jean Monnet, considerato uno dei padri dell’Europa unita: "L’Europa si sarebbe forgiata nelle sue crisi e sarebbe stata la somma delle risposte messe in campo". Una dichiarazione che a posteriori potremmo ritenere lungimirante, data la spinta europeista, materiale e valoriale, che è avvenuta nell’immediato post pandemia. "Sono stati stanziati 100 miliardi dopo la pandemia in ambito sociale", situazione che secondo la segretaria Dem sarebbe messa in pericolo nell’ipotesi di una ribalta destroide alle elezioni di giugno. Non mancano gli attacchi al governo: "Sono passati due anni dall’invasione criminale di Putin [...] non ci può essere nessun dubbio [del governo N.D.R.] sull’assoluta responsabilità di Putin". Anche lei, come le numerose formazioni liberali presenti in sala, rimarca la sua posizione sulla guerra in Ucraina e il modo in cui essa è legata al tema del federalismo: "Con nettezza l’Europa deve continuare a sostenere il popolo ucraino con ogni forma di assistenza necessaria. Con la consapevolezza, però, che in questi due anni abbiamo visto troppa poca politica estera e di sicurezza comune" e ancora "bisogna che noi investiamo sul ruolo diplomatico e politico della UE". L’idea di Europa unita, secondo la Schlein, si articola anche con una politica economica più statalista, forse rendendo più difficile la compatibilità con la galassia liberale. Secondo la segretaria c’è bisogno di "una lotta seria contro i paradisi fiscali" e "le tasse si pagano dove si fa profitto e non dove conviene", ribadendo la posizione contraria del PD alla sempre più frequente delocalizzazione degli impianti produttivi. L’ex Terzo Polo invece, sembra meno convinto. Infatti Calenda, segretario di Azione e al momento della convention presente sul suolo ucraino per il secondo anniversario dello scoppio della guerra, sembra sviare il discorso. L’ex ministro nel Governo Renzi ha condito il suo discorso, durato a malapena dieci minuti, di riferimenti alla situazione orientale e all’importanza di sostenere Kiev. "Prima della battaglia per gli Stati Uniti d’Europa dovremmo riscoprire l’orgoglio di essere occidentali", e ancora, "possiamo fare tanti richiami ai padri fondatori, ma oggi è una questione di armi". Di certo Matteo Renzi, ex segretario Dem e ora leader della formazione liberale Italia Viva, non è stato più esaustivo riguardo l’argomento cardine. Sembra che per l’ex Presidente del Consiglio la questione degli Stati Uniti d’Europa sia solo un fatto di strategia politica: "Io sono il primo a parlare di geopolitica, di diplomazia, di munizioni, di globalizzazione. Però c’è una domanda secca: siete disponibili a fare una lista? Si o no?". Molto più frequenti gli attacchi al governo, in particolare al duo Meloni-Salvini (ribattezzato Melonez per l’occasione), che secondo Renzi "dopo Chiara e Francesco" sarà "la prossima coppia che scoppia". Non meno indulgente è stato nei confronti della Schlein con cui ha, a sua detta, "un’affettuosa incompatibilità". Infatti, Renzi mette in dubbio la possibile alleanza PD-M5S, denominata “Campo largo” e iniziata dall’ex segretario Nicola Zingaretti, chiedendosi "come questo suo ideale europeista [di Elly Schlein N.D.R.] possa accompagnarsi con chi alle Nazioni Unite si definisce “sovranista”, come ha fatto Giuseppe Conte". Insomma, gli Stati Uniti d’Europa per alcuni sono un sogno, per altri una necessità e per altri ancora mera strategia politica. Quel che è certo è che se si vuole andare veramente nella direzione tracciata da Emma Bonino e Riccardo Magi, cioè l’alleanza tra liberali e socialdemocratici, non è detto che tutti possano rimanere sulla stessa barca. Forse la simil-barzelletta con cui si è aperto questo articolo (quella del socialista, del liberale e del conservatore) non è del tutto esatta: non è detto che gli avversari del federalismo siano solo conservatori. di Giulia Cavallari - Giovane Avanti! Bologna È stato introdotto il nuovo Piano Triennale per l’informatica nella Pubblica Amministrazione per gli anni 2024-2026. Si tratta di uno strumento necessario per attuare quel percorso di trasformazione digitale che l’Italia attende da troppo tempo partendo dalla trasformazione digitale della Pubblica Amministrazione.
Dal nuovo Piano Triennale (il primo sotto il Governo Meloni) emergono una serie di elementi fondamentali per il futuro delle nuove tecnologie e del digitale nella PA. Il Piano 2024-2026 integra i Piani degli anni precedenti (il primo è del triennio 2017-2019) con gli obiettivi della Missione Digitale del PNRR e gli sviluppi della PA. Si tratta di un documento di orientamento oltre che di supporto per le Pubbliche Amministrazioni chiamate a pianificare le loro attività nel processo di trasformazione digitale. Il Piano 2022-2024 è stato caratterizzato dal PNRR nel senso che la Missione 1 (Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo) ha rappresentato l’opportunità di dare una spinta pianificando una serie di attività per la trasformazione digitale. L’informatica e le nuove tecnologie oggi hanno un ruolo fondamentale soprattutto in un’era in cui il ruolo dell’intelligenza artificiale è sempre più quello di un protagonista che è entrato a far parte delle nostre vite. Il Piano Triennale 2024-2026 presenta una serie di cambiamenti rispetto ai precedenti: è necessario procedere ad una vera e propria implementazione dei servizi digitali. Come viene riportato nell’introduzione: “Il nuovo Piano triennale si inserisce in un contesto di riferimento più ampio definito dal programma strategico “Decennio Digitale 2030” [...] i cui obiettivi sono articolati in quattro dimensioni: competenze digitali, servizi pubblici digitali, digitalizzazione delle imprese e infrastrutture digitali sicure e sostenibili”. E quindi la strategia del nuovo piano nasce proprio nell’ottica di una riorganizzazione e programmazione della digitalizzazione delle PA. Ma quali sono le finalità di questo Piano? Innanzitutto fornire alla Pubblica Amministrazione gli strumenti per erogare in tempi celeri servizi ai cittadini ed erogarli in modalità digitale, favorire lo sviluppo di una società digitale perché nel nostro Paese sono ancora tanti, troppi i cittadini che non hanno neanche le conoscenze basilari per l’utilizzo degli strumenti digitali, favorire al contempo uno sviluppo che sia sì sostenibile, ma anche inclusivo che quindi non mostri- ancora una volta- divari creando cittadini di serie A e cittadini di serie B. Il modello strategico, come viene riportato nel Piano, individua una “architettura organizzativa e tecnologica che ha l’obiettivo di supportare la collaborazione tra i livelli istituzionali, nel rispetto della autonomia degli stessi enti, come previsto anche dall’art. 14 del Decreto Legislativo 7 marzo 2005 n. 82 (conosciuto anche come Codice dell’Amministrazione Digitale) sui rapporti tra Stato, Regioni, autonomie locali.” Il Piano triennale aggiorna quelli che sono considerati i principi guida per collegarli anche ad un quadro normativo in costante evoluzione. Uno dei principi cardine è il c.d. “digital & mobile first” vale a dire che le Pubbliche Amministrazioni sono chiamate ad erogare servizi pubblici che siano fruibili dai cittadini utilizzando gli strumenti digitali di cui dispongono. Altro principio sul quale si stanno compiendo dei passi in avanti è il c.d. cloud first vale a dire il cloud inteso come piattaforma abilitante. La strategia è quella di procedere alla realizzazione di un sistema operativo del Paese ricorrendo al cloud computing nel settore pubblico. Quindi, incentivare le PA a introdurre e riconoscere soluzioni basate sul cloud computing attraverso il modello cloud della PA per favorire la diffusione dei servizi digitali e la realizzazione di una rete di infrastrutture digitali di cui il nostro Paese continua ad essere carente e significa anche garantire la sicurezza degli asset strategici per il Paese. Un principio che non può non essere preso in considerazione è legato alla interoperabilità by design e by default. Altro elemento, che ha trovato sviluppo, ‘grazie’ alla pandemia, è legato all’incremento delle identità digitali: SPID, carta di identità digitale come unici strumenti di accesso ai servizi della PA. Ulteriore elemento è il c.d. openness vale a dire che le PA devono attuare tutte le misure necessarie per evitare il lock-in dei propri servizi. Oggi, un fattore chiave che le Pubbliche Amministrazioni devono considerare è la sostenibilità digitale. Il modello strategico del piano triennale 2024-2026 individua una serie di sfide “legate sia al funzionamento del sistema informativo di un singolo organismo pubblico, sia al funzionamento del sistema informatico pubblico complessivo dell’intero Paese, nell’ottica del principio cloud-first e di una architettura policentrica e federata”. Sfide sia organizzative che tecnologiche che le PA a livello centrale e locale devono affrontare necessitano di strumenti, di regole, di tecniche che consentano una pianificazione delle azioni e degli investimenti a livello istituzionale. Con il Piano 2024-2026 viene presentato anche un modello di Pubblica Amministrazione che ha come obiettivo il funzionamento di tutti gli enti nel loro insieme e non il funzionamento della singola PA puntando sul concetto di government as a platform con gli enti che diventano di fatto degli ecosistemi amministrativi digitali “alla cui base ci siano piattaforme organizzative e tecnologiche, ma in cui il valore pubblico sia generato in maniera attiva da cittadini, imprese e operatori pubblici..”. Seguendo, di fatto, quanto era stato previsto nella Comunicazione EU n. 118 del 2021 sulla Bussola Digitale 2030 secondo cui “l’ecosistema non è un elemento esterno all’ente, ma è qualcosa sostenuto dall’ente pubblico per abilitare servizi migliori”. Siamo, quindi, di fronte ad un processo di trasformazione digitale che sta coinvolgendo diversi attori a tutti i livelli: dai cittadini, alle pubbliche amministrazioni, alle imprese e per affrontare questa trasformazione è fondamentale che si delineino dei veri e propri percorsi di transizione digitale che richiede una partecipazione attiva delle istituzioni dal Governo centrale agli enti locali. Questo processo di collaborazione consiste in un vero e proprio coinvolgimento delle varie strutture operative che hanno una missione, anzi la missione: la digitalizzazione di un Paese che per troppi anni ha atteso questo percorso di trasformazione per rendere ai cittadini servizi accessibili e contribuire quindi alla crescita del Paese anche a livello economico oltre che sociale. Il piano 2024-2026 rappresenta il percorso che dovrà essere seguito da tutti gli attori in campo e l’Agenzia per il Digitale avrà il ruolo di ‘supervisionare’ la realizzazione di tutti gli obiettivi presenti nel Piano. Uno Strumento strategico che rappresenta quella rivoluzione che si sta aspettando da tempo. In un mondo sempre più interconnesso è fondamentale che il rafforzamento della cybersecurity sia il pilastro intorno al quale costruire il futuro digitale dell’Italia. Un capitolo del Piano triennale è dedicato proprio alla cybersecurity perché la priorità non più rinviabile con l’individuazione di alcune linee di azione: 1) monitoraggio proattivo delle minacce cyber nel dominio della PA mediante la diffusione di indicatori di compromissione e informazioni per l’innalzamento del livello di difesa; 2) individuazione e analisi e gestione dei rischi cyber e quindi la necessità di fornire strumenti ad hoc; 3) formazione per far conoscere e rafforzare la conoscenza della cybersecurity nelle Pubbliche Amministrazioni. Con l’istituzione dell’Agenzia Nazionale per Cybersicurezza (D.L. n. 82/2021) si è voluto evidenziare l’impegno che le istituzioni del nostro Paese hanno deciso di assumersi per rafforzare le difese digitali dell’Italia soprattutto creare intorno alle infrastrutture critiche un muro di sicurezza per garantire il loro funzionamento e quindi creare un piano di difesa dei sistemi informatici della Pubblica Amministrazione e delle infrastrutture critiche. E’ necessario adottare elevati standard di sicurezza e protezione in materia di privacy a tutela e garanzia dei dati personali dei cittadini e affinché questi dati vengano gestiti in modo sicuro e responsabile. Le Pubbliche Amministrazioni, come si evince nel Piano, “garantiscono la conformità dei propri sistemi di IA con la normativa vigente in materia di protezione dei dati personali e di sicurezza cibernetica”. Nell’Italia del 2024 e del futuro “la sicurezza e la resilienza delle reti e dei sistemi, su cui tali tecnologie poggiano, sono il baluardo necessario a garantire, nell’immediato, la sicurezza del Paese e, in prospettiva, lo sviluppo e il benessere dello Stato e dei cittadini.” Per la prima volta nel Piano Triennale è stata inserita una parte dedicata esclusivamente ai dati e all’Intelligenza Artificiale (capitolo 5). Si evidenzia il potenziale che l’intelligenza artificiale ha e la si considera una tecnologia “estremamente utile, o addirittura dirompente, per la modernizzazione del settore pubblico”. L’intelligenza artificiale viene, quindi, considerata come risposta per migliorare sia l’efficacia che l’efficienza nella gestione ed erogazione dei servizi pubblici a cittadini ed imprese. La Pubblica Amministrazione italiana annovera già esperienze importanti nello sviluppo e utilizzo di soluzioni di intelligenza artificiale basti pensare all’Agenzia delle Entrate che utilizza algoritmi di machine learning per l’analisi di schemi e/o comportamenti sospetti e per rilevare eventuali frodi o all’INPS che adotta chatbox per una maggiore interazione sempre più personalizzata con l’utente che o all’ISTAT che utilizza foundation models (vale a dire sistemi che sono in grado di svolgere una serie di compiti anche molto specifici) per un miglioramento della qualità della modellazione dei dati. I principi di azione che dovranno essere adottati dalle PA per l’uso dell’intelligenza artificiale sono: miglioramento dei servizi e riduzione dei costi, analisi del rischio, trasparenza, responsabilità e informazione, inclusività e accessibilità, privacy e sicurezza, ma anche sostenibilità e utilizzo di foundation models (sistemi IA Ad alto impatto). Le PA che acquistano servizi di intelligenza artificiale sono tenute a valutare attentamente sia le modalità che le condizioni con le quali i fornitori gestiscono i dati che la PA fornisce tenendo in debito conto la proprietà dei dati e la compliance alla vigente normativa in tema di privacy e protezione dati personali. Sarà questa la volta buona in cui l’Italia riuscirà a cambiare e raggiungere un livello importante di digitalizzazione della PA e di erogazione di servizi a cittadini e imprese? di Ettore di Mattia I vecchi tormentoni, si sa, sono duri a morire. Ne sanno qualcosa i nostalgici della fiamma tricolore che per l'occasione tirano fuori l'album dei ricordi in cerca della frase giusta da sfoggiare. Questa volta il vincitore della contesa in risposta al problema del sovraffollamento carcerario è stata "Costruiremo più carceri!".
"Penso che il tema del sovraffollamento carcerario si risolva aumentando la capienza nelle carceri, assumendo e sostenendo la polizia penitenziaria come il governo ha fatto in questo anno, perché è l'unica risposta seria che può dare uno Stato". Così ha commentato da Tokyo la Presidente del consiglio, corredando il tutto con un puerile attacco all'opposizione che semplifica brutalmente un diverso approccio da quello afflittivo-punitivo tanto caro alla destra reazionaria: "Se invece si ritiene che la risposta seria che può dare lo Stato sia, poiché non c'è abbastanza spazio nelle carceri, togliere i reati per fare in modo che persone colpevoli non paghino e non seguano il corso dei procedimenti giudiziari, su questo non sono d'accordo, ma del resto non sono di sinistra, come si sa". Per fortuna, aggiungerei sommessamente. Non vorrei mai che un leader politico si esprimesse con una tale bassezza nell'affrontare un problema serio come questo. Andrebbe infatti ricordato alla presidente del consiglio, come sottolinea da tempo l'associazione Antigone, che in Italia sono necessari almeno 10 anni per portare a termine la costruzione di una nuova prigione. Nel frattempo, il sovraffollamento rimane un problema immediato e urgente che richiede soluzioni immediate. Costruire un carcere non è solo una questione di investimenti finanziari. Servono circa 25 milioni di euro per la realizzazione di una nuova struttura, e considerando il numero attuale di detenuti senza posti regolamentari, sarebbero necessari ben 52 nuovi istituti, per un totale di oltre 1 miliardo e 300 milioni di euro. A voler quindi sostenere l'argomentazione del capo di governo, sarebbe necessaria una programmazione a lungo termine che preveda un considerevole stanziamento di fondi. Cosa che ad oggi non è stata realizzata. A ciò si aggiunge la conclamata carenza di personale operante negli istituti penitenziari, figure fondamentali per il corretto funzionamento delle carceri. Secondo l'ultimo rapporto Antigone infatti il sistema penitenziario italiano risulta essere caratterizzato sia da una forte disparità fra operatori di polizia penitenziaria ed altri operatori, sia da una generalizzata carenza di educatori. La carenza di personale fra gli agenti pare, invece, essere l’inevitabile conseguenza di precise scelte di politica penitenziaria che hanno previsto un elevatissimo numero di poliziotti nelle piante organiche degli istituti il cui peso, rispetto agli altri operatori ed ai detenuti, non trova riscontro in altri paesi europei. Tutto ciò in vista di una operazione di contenimento dell'individuo a discapito della funzione rieducativa. "Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere e, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori, quindi in strutture particolarmente fatiscenti, con poche attività trattamentali, con una scarsa presenza del volontariato". Questo incipit presente nella terza sezione del dossier prodotto dalla celebre Giornale della Casa di Reclusione di Padova "Ristretti Orizzonti", basterebbe ad indicare come la semplice costruzione di nuovi edifici debba per forza di cose implicare la selezione di ulteriore personale, cosa che ad oggi non è stata realizzata. "In alcuni casi le persone che si sono tolte la vita erano affette da malattie invalidanti e ricoverate in Centri Clinici Penitenziari, ma sembra che sia l’allocazione in un determinato reparto a rappresentare il principale fattore di rischio, più che la gravità della patologia: nell' Infermeria di Rebibbia, nel Reparto Malattie Infettive di Marassi, come nel Reparto Osservazione per Tossicodipendenti di San Vittore, si sono uccisi anche detenuti che non erano gravemente ammalati. Forse il fatto di raggruppare i detenuti in base al loro stato di salute, con l’occasione di specchiarsi quotidianamente nella doppia sofferenza dei compagni, quella della detenzione e quella della malattia, contribuisce a far perdere ogni speranza. In questo concetto, della perdita di ogni speranza c’è la spiegazione per la maggior parte dei suicidi che avvengono nelle carceri. L'elemento che purtroppo accomuna i suicidi dei soggetti appena arrestati con quelli che stanno per terminare la pena è la mancanza totale di prospettive, seppure in situazioni molto diverse tra loro. Nessuna prospettiva di riottenere la rispettabilità persa per chi, da detenuto, attende il processo per mesi ed anni: anche se fosse assolto, non potrà più liberarsi dal marchio del sospetto. Nessuna prospettiva di poter trascorrere utilmente la detenzione, per chi sa di dover scontare molti anni: in tante carceri, spesso proprio quelle dove sono più frequenti i suicidi, il tempo della pena è tempo vuoto, dissipato lentamente aspettando il fine pena. Nessuna prospettiva di poter tornare a vivere normalmente". Quest'anno dal 5 al 31 gennaio nelle carceri italiane si sono uccise 13 persone, più del triplo rispetto al 2023. Dodici dei detenuti morti in carcere a gennaio si sono impiccati, mentre un altro, è morto lo scorso 6 gennaio dopo un lungo sciopero della fame. Ovviamente "ogni detenuto morto suicida è sicuramente una storia a sé che non si risolve andando alla ricerca di capri espiatori da sanzionare", ricorda Patrizio Gonnella presidente dell'associazione Antigone. "Non si risolve sanzionando il poliziotto che si sarebbe distratto o lo avrebbe perduto di vista per qualche secondo fatale. Si affronta guardando alle cause sociali, culturali e strutturali del sistema penitenziario italiano. Modernizzando una vita penitenziaria che ancora si snoda con ritmi e riti premoderni" Secondo il ragionamento sbrigativo della presidente Meloni sarebbe quindi superfluo concentrarsi sulla depenalizzazione e sulle misure alternative alla detenzione che invece allevierebbero il sovraffollamento carcerario, favorendo il reinserimento sociale dei detenuti e tentando anche di ridurne il tasso di recidiva. Bisognerebbe utilizzare invece il pugno duro. Magari una legislazione da proporre in base ad spinte emozionale, come accaduto recentemente a seguito dei fatti di Caivano. Stando al 7° rapporto sulla giustizia minorile dell’associazione Antigone, all’inizio del 2024 sono circa 500 i detenuti nelle carceri minorili italiane. I ragazzi in misura cautelare sono 340, mentre erano 243 un anno fa. Da oltre dieci anni non si raggiungevano numeri simili, segno evidente degli effetti del decreto Caivano. "Per la prima volta, dopo tanto tempo, alcune carceri minorili hanno cominciato a registrare situazioni di sovraffollamento. Proprio come quelle per gli adulti". Commenta così Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, secondo cui il dato relativo agli stranieri mostra che il sistema funziona meglio per chi è a monte più garantito e può contare su reti sociali e familiari esterne. Secondo l'interessante report di Elia De Caro per Antigone "Paradossalmente ad ogni stagione si ritiene poi di intervenire nuovamente aggravando quegli strumenti che ad oggi hanno dato prova di un pessimo funzionamento come del resto dimostra la necessità di intervenire su disposti normativi recentemente introdotti nell’ordinamento...oppure si assiste all’ennesimo intervento restrittivo sulla legislazione non riuscendo in alcun modo a contrastare i numeri del fenomeno da reprimere, vedasi il consumo e il traffico degli stupefacenti”. Con il cosiddetto Decreto Caivano si interviene sulla normativa degli stupefacenti e sulla normativa del diritto penale minorile, oltre a prevedere un ampliamento delle misure questorili, di cui si aumenta portata e discrezionalità, quali fogli di via e Daspo urbano, volti a realizzare esclusivamente obiettivi di ordine pubblico. Il tutto “senza alcuna attenzione a dati di statistica giudiziaria sull’efficacia delle politiche intraprese, si interviene quindi in base a un ritenuto allarme di criminalità minorile, laddove l’Italia in realtà è tra i paesi in Europa con il minor tasso di reati commessi da minori". Inoltre si tende ad intaccare il codice di legislazione penale minorile, ostacolando i processi educativi dei minori facendo leva sul carattere repressivo della pena arrivando ad interrompere in alcuni casi il percorso formativo del minore, prediligendo invece un'ottica di rieducazione dimenticandosi completamente esigenze di studio o legate allo sviluppo del minore e ai processi educativi in atto, essendo disposto esclusivamente che tali misure prevedano modalità applicative del divieto compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del destinatario dell’atto. Punire per educare insomma, concetto tanto caro alla destra quanto vetusto e incompatibile con le moderne esigenze di tutela dell'individuo. di Marta Pietrosanto Con la Legge di Bilancio si affaccia sul panorama della normativa in favore delle famiglie una nuova misura denominata “bonus madri lavoratrici”. Iniziamo subito col dare il nome giusto alle cose: più che di un bonus, si tratta di un esonero contributivo che va a tagliare i contributi previdenziali dalle buste paga delle madri lavoratrici. Non c’è quindi, una vera concessione di denaro, come nel caso dei bonus, ma più che altro, uno sgravio delle trattenute. Chiamarlo "bonus madri lavoratrici" sembra essere una chiara scelta politica: quella di dimostrare l’attenzione del Governo alle ingenti difficoltà che devono affrontare le famiglie nella gestione coordinata di prole e lavoro, così come la conduzione delle risorse economiche nell’amministrazione e nella crescita dei figli. Ma è davvero così? Andiamo ad analizzare quali sono le madri lavoratrici che riceveranno questo taglio delle trattenute. La platea è composta da lavoratrici a tempo indeterminato, madri di almeno due figli, di cui uno minore di dieci anni, per l’anno 2024, mentre nel biennio 2025-26, per vedersi assegnata la misura, si dovrà essere madri di almeno tre figli, di cui uno almeno minore di 18 anni.
A primo impatto, si potrebbe pensare che sia intenzione seria di questo Governo prendere di petto il problema del bilanciamento tra cura dei figli e lavoro, difficoltà che tante donne si trovano ad affrontare. Si registra infatti il record, nel solo anno 2022, di 44.669 (dati Ispettorato del lavoro) donne che si sono dimesse dal loro impiego perché impossibile da conciliare con la cura della prole. Il 63% delle mamme dimissionarie ha motivato la scelta dell’abbandono del lavoro sottolineando l’impossibilità della gestione coordinata di cura dei figli e impiego. Il 78,9% degli uomini dimissionari, invece, adducono come motivazione il cambio di azienda. E se i numeri non mentono mai, emerge chiaramente quanto nel Belpaese risulti ancora molto complicato per le donne poter mantenere il loro lavoro quando diventano madri. I problemi sono molteplici: scarsi posti negli asili pubblici con conseguenti graduatorie infinite e scoraggianti, rate alte e dispendiose per asili e scuole private, ultimo rifugio per coloro che non si vedono accettati i figli negli istituti pubblici, poca flessibilità delle aziende in favore dei genitori, mancata concessione del contratto part-time ai genitori che lo richiedono, congedi parentali e per malattia bambino limitati. Per chi non lo sapesse, la legge 1204 del 1971, prevede che siano concessi, per assistere un figlio ammalato di età compresa tra i 3 e gli 8 anni, solo 5 giorni annui di congedo che uno dei due genitori può utilizzare. Ma torniamo all’oggetto principale del nostro discorso, il bonus madri lavoratrici: come già detto la misura è rivolta alle madri lavoratrici A TEMPO INDETERMINATO. In uno Stato in cui tra il 2013 e il 2022 si è segnato il record europeo di aumento di incidenza dei lavori a tempo determinato (+3,4%) si assegna un aiuto economico alle madri lavoratrici solo se in possesso di un contratto stabile, lasciando indietro quindi le madri precarie, con lavori stagionali, a tempo determinato, intermittenti, quelle che sono costrette a lasciare il lavoro perché incompatibile con la cura dei figli, le disoccupate. Altre madri lavoratrici escluse dalla misura sono le lavoratrici domestiche, così come le madri single di un solo figlio. È a dir poco surreale pensare di poter istituire una misura in aiuto delle mamme che lavorano lasciando fuori quelle che svolgono lavori instabili e spesso malpagati. Impossibile non pensare all’articolo tre della Costituzione che mi fa piacere ricordare “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione di opinioni politiche di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Altro problema che il Governo sembra voler dare l’intenzione di affrontare è quello del crollo fisso e continuo della natalità nel nostro Paese. Dai dati forniti dal censimento Istat 2022, emerge che l'età media degli italiani è salita a 46,4 anni e che abbiamo raggiunto un ulteriore record negativo per la natalità, con 393 mila nati, 7 mila in meno rispetto al 2021 (-1,7%) e ben 183 mila in meno (-31,8%) rispetto al 2008. In un Paese che invecchia a velocità costante, in cui per ogni bambino con meno di sei anni si attesta la presenza di oltre 5 anziani (5,6), quando nel 1971 si contava un anziano per ogni bambino e che per la prima volta nel 2023 è sceso sotto i 59 milioni di residenti, il governo ha pensato di mettere un cerotto su un’emorragia inserendo nella legge di bilancio il bonus madri lavoratrici. A questo punto è opportuna una riflessione su cosa vogliono le giovani coppie italiane. Potrebbe sembrare che non siano interessate a mettere al mondo dei figli, probabilmente per molte è così, influiscono sicuramente sulla decisione le riflessioni sul futuro attanagliato dalla crisi climatica, guerre ed inflazione, solo per citare alcuni tra i problemi maggiori. Sappiamo infatti da studi su campioni di italiani ed italiane appartenenti alla gen Z ed ai millenials, che queste tematiche sono molto importanti e che questi vorrebbero vederle comparire di più nell’agenda politica. Esiste però un altro dato interessante, uno studio sviluppato in venti nazioni dalle demografe Eva Beaujouan e Caroline Berghammer. Esse hanno confrontato la differenza fra i figli desiderati (le intenzioni di fertilità) e quelli effettivamente avuti. Dallo studio emerge che in Italia il numero dei figli dati alla luce è notevolmente inferiore a quelli desiderati, arrivando persino a coppie che spesso non hanno avuto alcun figlio. Le donne italiane dichiarano di volere circa 2,1 figli, un numero in linea con la media delle altre nazioni analizzate nello studio, ma la forbice tra sogno e realtà è molto ampia; infatti, il numero di figli effettivamente avuti è 1,4. Appurato quindi, grazie a questo studio, che esistono ancora tante persone desiderose di avere prole, la domanda da porsi è come mai esiste questo fertility gap, così si chiama questo fenomeno. Le coppie italiane vorrebbero dei figli ma non riescono ad averne, spesso in attesa del lavoro stabile lasciano passare troppo tempo, in tanti casi l’indipendenza economica arriva in età avanzata, a volte, troppe, le possibilità economiche non consentono di mettere al mondo dei figli. Sarebbero opportune, quindi, politiche che possano far sentire i giovani e le giovani più fiduciosi nel futuro, tagli al lavoro precario, diminuzione dei contratti a tempo determinato, un limite ai contratti stagionali che dal DL 81/2015 possono essere illimitati. Potrebbe anche essere utile fornire incentivi alle coppie che vogliono accedere alla procreazione assistita, aumentare i centri pubblici che se ne occupano permettendo alle coppie provenienti da tutte le fasce economiche della società di accedervi. Si potrebbe anche aumentare il numero di giorni di congedo parentale, attualmente sono previsti 9 mesi indennizzati, di cui il primo all’80%, il secondo, per introduzione del DL Bilancio anche all’80% e i restanti al 30%, da fruire in maniera ben strutturata tra madre e padre fino a 12 anni del figlio/a. Si potrebbero aumentare i giorni di congedo di paternità obbligatoria, attualmente 10, da fruire entro i 5 mesi del figlio, indennizzati al 100%. Potrebbero essere persino elevati i giorni di congedo per assistere un figlio in caso di malattia. Dai giovani e dalle giovani italiane arriva un grido molto forte, invece di creare strampalate politiche che dovrebbero chissà come incentivare a volere figli, senza rispettare la volontà di chi non li vuole, perché ogni scelta è legittima, si chiede di investire in politiche che permettano a chi li desidera di mettere al mondo i figli che vorrebbe, perché ha la possibilità di farlo, l’opportunità di dar loro il tempo di crescerli, di seguirli, di partecipare alle loro recite, di andarli a prendere a scuola, la capacità di tornare a credere nel futuro abbastanza da sentirsi pronti a mettere al mondo un figlio. Nel frattempo, nel DDL bilancio, lo stesso che contiene il "bonus madri lavoratrici", il Governo Meloni riporta l’Iva dal 5% al 10% su assorbenti, latte in polvere o liquido per l'alimentazione dei lattanti o dei bambini nella prima infanzia, preparazioni per l'alimentazione dei fanciulli, pannolini per bambini. Una mano dà, una mano toglie. di Mattia Carramusa - FGS Ha il via da stasera la tre giorni di presentazione del libro “Gli Impertinenti”, un volume su Sandro e Carla Pertini curato dal professor Enrico Cuccodoro, presidente dell’Osservatorio Pertini e docente dell’Università del Salento.
Il libro, curato dal professor Cuccodoro, vede il contributo di tanti autori, socialisti e non, e vede la partecipazione di tante realtà: dall’Università del Salento ad Alumni Luiss, dalla CGIL alla UIL, dall’Osservatorio Istituzionale per la Libertà e la Giustizia Sociale alla Fondazione Pertini e altre realtà ancora. L’evento, organizzato e curato minuziosamente da Giuseppe Maria Toscano, segretario del circolo FGS “Giacomo Matteotti” e consigliere nazionale PSI, si articola in quattro appuntamenti nei quali si metterà la lente d’ingrandimento su alcuni aspetti: Pertini socialista eretico, Pertini partigiano, Pertini membro delle istituzioni repubblicane, Pertini e il rapporto coi giovani. Tutti con un filo conduttore: Carla, la staffetta partigiana che fu al fianco di Sandro da grande esempio di vera donna emancipata e indipendente. Gli eventi, organizzati da Toscano e dal circolo FGS di Rovigo, vedono presenze e ospiti di rilievo. Si inizia oggi, giovedì 4 aprile, alle ore 20:30 con la tappa al Museo del Termalismo di Montegrotto Terme (PD), e che vedrà i saluti delle istituzioni comunali. A seguire, venerdì 5 aprile, sempre alle 20:30, l’evento si sposta in Sala Giusto Geremia, nel comune vicentino di Pojana Maggiore, moderato dal segretario regionale FGS Andrea Comberlato. Sabato doppio appuntamento finale: nella sezione del Partito Socialista Italiano di Rovigo, alle 17:30 nella provincia di Matteotti l’autore dialogherà col vicesegretario nazionale della Federazione dei Giovani Socialisti, Mattia Carramusa. In chiusura, nella sala del Redentore a Monselice (PD), alle 20:30 l’incontro sarà moderato dal segretario del PSI Padova, Matteo Guidolin. Un evento che dà slancio e sospiro al mondo socialista veneto, dando visibilità a molti giovani impegnati, e soprattutto rivalutando il politico socialista Sandro Pertini, figura tanto distante dai vari nomi del pantheon della “sinistra giusta” post-1989. Elisa Bortolazzi - Ezio Bellentani Ogni anno, il Parlamento entro la fine dell’anno corrente deve approvare la Legge di Bilancio concernente l’anno successivo; se ciò non avviene, l’Italia entra in esercizio provvisorio. L’obiettivo dell’atto legislativo è quello di stabilire le misure economiche, nuove o rifinanziate, che saranno in vigore nell’anno successivo.
Per quanto concerne l’ambito del sociale, l’Esecutivo nella “Manovra Finanziaria 2024” ha:
Le scelte compiute dal Governo pongono in luce uno scollamento tra esse ed il soddisfacimento dei bisogni, e delle esigenze, della collettività. In altri termini, le azioni delineate dall’Esecutivo evidenziano una mancanza di volontà politica, e di coraggio, nell’investire maggiormente nel sociale al fine di garantire a tutte e tutti, i medesimi diritti e le medesime opportunità; rendendo così il provvedimento legislativo in oggetto significativamente iniquo, dando l’impressione non di un errore ma di un preciso disegno politico. Proviamo a spiegarci meglio:
L’innalzamento dell’età anagrafica, e contributiva, per chi desidera beneficiare della misura cosiddetta “Ape Sociale” produrrà alcune conseguenze negative per il nostro Paese, quali:
Sul tema delle disabilità, non solo c'è bisogno di investire maggiormente, ma è anche necessario farlo con una visione di insieme ed in una prospettiva futura. Ragion per la quale quando capiremo che sulle disabilità occorre investire sotto ogni punto di vista: economico, sociale, culturale e sanitario allora, e solo allora, saremo un Paese che accetta, include e valorizza le "diversità". Prima di allora continueremo ad essere un Paese nel quale le disabilità, o più in generale le fragilità, sono una "colpa" che chi le ha deve "espiare". di Flavio Barbaro Il tema del welfare è dibattuto sin dalla sua creazione agli inizi del XIX secolo, e oggi di nuovo torna a far discutere di sé, anche grazie alle nuove misure di cui parla il Governo riguardo gli ambiti più importanti di questo, come la sanità e gli enti locali (per il primo è previsto un riordino normativo, per il secondo una bozza dell’atto di indirizzo), anche se molto spesso lo sentiamo sempre citato nelle sue forme più ampie, come gli “aiuti alle famiglie” e i “servizi al cittadino”.
Partiamo proprio da queste due ultime espressioni, cioè “famiglie” e “cittadino”. Sebbene la struttura lineare del welfare statale – dall’alto verso il basso – abbia i suoi grandi vantaggi e consenta una risposta unitaria a livello nazionale, ad un certo punto va incontro ad una necessaria ramificazione proprio nel livello in cui si trovano le famiglie e i cittadini. Questo non significa necessariamente invalidare il lavoro del sistema nazionale, ma significa prendere atto della necessità degli enti locali e dei presidi di questo sistema, che adesso invece prende il nome di welfare locale. L’esempio più semplice che possiamo fare comprende in realtà un problema complicato, come quello del divario nord-sud e dell’occupazione. Se prendiamo l’ultimo report trimestrale dell’Istat vediamo, ad esempio, che il Piemonte ha un tasso di occupazione del 67,1%, mentre la Campania del 44,4%, e se si scende ancora più nel dettaglio osservando i dati delle provincie arriviamo ad una grande variabilità, ed è chiaro come si renda necessaria un’intermediazione da parte di organismi che partecipino allo stesso obiettivo di benessere sociale, senza però far parte di quello schema lineare sopra citato. In poche parole: le scelte in materia di occupazione per la Campania non saranno le stesse per il Piemonte, così come se mettessimo a confronto la Campania con il 56,1% della Sardegna, la quale, pur rimanendo sotto il 60%, mostra dei tassi di occupazione differenti per maschi e femmine e diversi da quelli della Campania, per non parlare poi delle varie province. C’è bisogno quindi di un ente interlocutore e attore sociale che completi l’azione dello Stato nei contesti più piccoli, cioè quelli della comunità. La stessa definizione di comunità che possiamo dare include ciò: questa, infatti, non è una struttura esterna, ma il frutto di un denso rapporto tra cittadini e ambiente, tessuto economico e dinamiche territoriali, i quali elementi possono essere colti sia con un’azione coordinata delle varie osservazioni statistiche (oggi in Italia ancora in difficoltà nella sincronizzazione dei vari database per la comparazione, come abbiamo imparato dalle esperienze delle Aziende sanitarie in epoca Covid e i cavilli burocratici ancora presenti), sia con la partecipazione e la presenza sul territorio del Terzo settore. Gli organismi di cui parliamo sono infatti le associazioni. Secondo il report del 2021 del Forum Nazionale del Terzo Settore, dal 2015 le INP (Istituzioni Non Profit) sono cresciute dell’8,2%, mentre secondo Maurizio Carucci su Avvenire i giovani tra i 18 e i 19 anni partecipano ad associazioni non di volontariato per il 4,1%. Da questi dati proseguiamo il ragionamento in due modi: il mondo delle associazioni è in crescita (sebbene rallentando, poiché tra il 2019 e il 2020 abbiamo un incremento dello 0,2% contro lo 0,9% del biennio 2018-2019), mentre gli iscritti calano (5,5 milioni nel 2015 contro i 4,6 milioni nel 2021); da un punto di vista di età bisogna invece guardare non solo al dato citato prima dei giovani tra i 18 e i 19 anni, ma anche i giovanissimi tra i 14 e i 17 anni, che tocca il 6,4% per la partecipazione ad associazioni di volontariato. Nonostante le percentuali appaiano irrisorie, proprio in questi piccoli numeri giace il motore del Terzo Settore, poiché queste associazioni sono naturalmente gettate verso il futuro, e lo dimostra il fatto che l’86,0% delle INP del report prima citato operi nel settore dell’Ambiente, mentre il 54,6% dei volontari sia attivo nei settori della Cultura, dello Sport e della Ricreazione. Appare quindi chiaro come i giovani svolgano un ruolo fondamentale all’interno di queste organizzazioni, fondamentali non tanto per la creazione e la diffusione di servizi, quanto per il monitoraggio della comunità al servizio dei providers, fornendo l’indirizzo che queste attività e queste associazioni devono seguire. Il tessuto comunitario, o welfare neet nel caso in cui si parli di questi servizi, è molto variegato, e ne fanno parte non solo il lavoratore, ma anche lo studente, il pensionato o l’impresa, ed è quindi necessario che ci siano dei cuscinetti che raccolgano le istanze e agiscano sul piano cittadino e i giovani hanno dimostrato di saperlo fare. Tutto ciò non sfocia però nel civismo: mantenere un approccio distaccato e strettamente “civico” significherebbe tradire lo scopo primario di questo dialogo, cioè quello di fornire delle indicazioni che poi saranno utili a livello nazionale, e proprio qui si gioca una partita politica non indifferente, poiché da questo tipo di attività nasce l’indirizzo politico. I nostri interlocutori, in quanto cittadini, superate le associazioni del Terzo Settore, che con la loro attività sopperiscono in parte ai servizi e alle attività cittadine, nonché al tessuto sociale e partecipativo, diventano i partiti. Qualunque iniziativa nasca nel Terzo Settore, per diventare modulo e modello deve passare per la politica strettamente intesa. Allora significa che parlare di welfare di comunità è anche parlare di politica. Senza consultare i dati sulla partecipazione dei giovani alla politica (che non migliorano la situazione rispetto ai dati sull’associazionismo) possiamo dire che il nostro ruolo diventa fondamentale nel momento in cui riusciamo a prendere consapevolezza delle nostre problematiche, a rispondere con i mezzi delle associazioni, a comunicarle alla politica e a renderle dei moduli ripetibili ed efficaci, tutto questo prendendo delle scelte, anche per la nostra comunità. L’Università sembra aver colto questi segnali, inserendo sempre più corsi e attività che facciano riferimento a queste tematiche e formando su questi stessi principi. Possiamo anche parlare di sinistra. Una tematica che si lega a doppio filo con il welfare di comunità è sicuramente la democrazia partecipativa, la quale diventa uno strumento fondamentale per perseguire gli obiettivi di collaborazione e solidarietà che creano il concetto di welfare di comunità. Quando si parla di “scelte” si parla proprio di questo: scegliere quale forma deve avere il proprio Comune o il proprio territorio sulla base della forma di dialogo che vogliamo istaurare tra di noi e delle tematiche da affrontare. Le nuove frontiere del welfare comprendono sicuramente tematiche care ai giovani, che riconfermano così il loro ruolo innovatore: il benessere psicologico, sempre più pesante nel dibattito sul sistema scolastico; le opportunità di orientamento lavorativo e universitario; l’aggregazione e la socializzazione nel mondo della società liquida. La sinistra e il socialismo in generale in questo possono svolgere dei ruoli fondamentali, ponendo le basi ideologiche – necessarie, poiché altrimenti non avremmo nessun livello nazionale con cui collaborare – che guidino l’attività e forniscano il fine ultimo non solo dell’attività, ma del dialogo stesso. Non possiamo permetterci di lasciarci sfuggire dalle mani e lasciare ad altri la frase “stare bene, tutti”. Marco Cappa- Giovane Avanti! Roma Sembra che Salvini, finalmente, stia facendo i conti con la sua vicinanza, prettamente propagandistica, al dittatore di Mosca. Infatti, nel corso degli anni il leader del Carroccio non ha fatto altro che elogiare la figura di Putin. Per esempio, nel 2015 dichiarò: «la Russia è sicuramente molto più democratica dell’Unione Europea» e ancora «cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin». Un atteggiamento che in questi tempi di guerra, tra la morte di un oppositore e un’uscita interventista della Francia, può risultare del tutto fuori luogo.
Tutto ciò ha portato Carlo Calenda, leader di Azione, a presentare una mozione di sfiducia nei confronti del Ministro delle Infrastrutture, nonché vicepremier, Matteo Salvini. Una mossa del tutto coerente con la linea assolutamente pro-Ucraina intrapresa dal mondo liberale nostrano. Una decisione di buon senso che è riuscita a mettere d'accordo tutte le opposizioni presenti dell’arco parlamentare, meno Italia Viva e +Europa. Secondo i firmatari della mozione (tra cui figurano, oltre a Calenda, anche Schlein e Conte) il fatto più grave riguardante i rapporti ambigui tra Salvini e Putin sarebbe l’intesa, risalente al 2017, tra Russia Unita, il partito del dittatore russo, e l’allora Lega Nord. Tale intesa però, e qui arriva la parte più sconcertante, non solo non sarebbe mai stata rescissa, ma addirittura sarebbe stata ratificata il 6 marzo 2022, una settimana dopo l’invasione dell’Ucraina orientale. «Non può essere accettato che il partito di un ministro di Governo sia ufficialmente alleato del partito di Putin», si legge nella newsletter di Calenda. Sembra però che tale motivazione, cioè avere un vicepremier formalmente alleato del partito di Putin, non sia bastata a Matteo Renzi e Riccardo Magi, leader di Italia Viva e +Europa. «Bisognerebbe che ci fosse il bon ton parlamentare di coordinarsi prima di annunciare il deposito di mozioni di sfiducia: occorre una riflessione per evitare di rafforzare invece di indebolire Salvini», ha affermato, ospite di Agorà, il senatore di Italia Viva Enrico Borghi. Della stessa linea Magi: «Temo che la questione di sfiducia al ministro Salvini sia un’arma un po’ spuntata, perché l’esito del voto è scontato» e ancora «Il rischio della mozione di sfiducia è che dopo la discussione parlamentare e il voto, il caso venga poi archiviato». Un caso particolare questo. Infatti, basta fare un giro sui canali social di Italia Viva e +Europa per accorgersi come la questione Ucraina e la netta condanna a Putin, siano temi fondamentali nella loro comunicazione. Per questo desta clamore la mancata firma di tali partiti alla mozione, che se sostenuta da tutte le opposizioni avrebbe avuto un peso politico e sociale non indifferente. Che ci sia qualche altra motivazione dietro? Che c’entri l’accordo per le europee tra +Europa e Italia Viva? Non è questo il luogo per dirlo. |